
L’aria sorniona ma timida di chi si sente sempre un po’ fuori posto e la passione irrefrenabile per il cinema, che sfociava nel fluviale eloquio aneddotico durante le interviste: fra questi due estremi sta la natura autentica di Michael Madsen, “American Badass” per antonomasia, come recitava un documentario su di lui uscito nel 2023 (lo stesso titolo, per inciso, della sua linea di salse piccanti, tanto per tornare a elementi distanti che pure si toccano). Un uomo sfuggente, che amava il metodo attoriale classico del “meno è meglio”, della recitazione da presenza fisica più che da lunghi monologhi, sulla linea dei suoi eroi come Humphrey Bogart o Robert Mitchum, ma che poi nella vita è stato anche scrittore, poeta, doppiatore e filantropo, caratterista da oltre 300 film, ma per tutti soprattutto presenza “cult” nelle pellicole di Quentin Tarantino. D’altra parte, lui stesso ci teneva a ribadire che a proposito della sua vita “there’s so much bullshit on the internet” e quindi una parte della sua attività era anche smentire le tante leggende sul proprio conto. In apertura una immagine tratta da The Hateful Eight di Quentin Tarantino.

Come quella che lo voleva attore di formazione teatrale che aveva studiato con John Malkovich nella natia Chicago, di fatto esperienza brevissima (circa un paio di mesi di laboratori), mentre poi il lavoro vero e proprio era arrivato per caso, quando era stato scelto per Wargames di John Badham, con il casting director che lo aveva notato mentre accompagnava per gioco un amico al provino. Lui, intanto, passava dal cambiare le ruote dei veicoli in officina a Chicago alle pompe di benzina losangeline, almeno fino allo scavallare del decennio fra gli Ottanta e i Novanta, quando l’occasione di affiancare Harvey Keitel in Thelma e Louise di Ridley Scott non lo convinse a provarci sul serio. Molte delle sue scene rimasero sul pavimento della sala di montaggio, spingendolo però a cercare una seconda occasione. Così, quando gli arrivò per le mani lo script de Le iene, fece il diavolo a quattro per ottenere la parte di Mr. Pink, il personaggio che aveva più scene con Keitel. Ma Tarantino aveva altri progetti per lui, Madsen doveva essere Mr. Blonde, l’adorabile psicopatico che balla sulle note degli Stealers Wheel (ancora le ruote…), tortura il poliziotto e che riuscì persino a strappare all’attentissimo pianificatore Quentin la possibilità di improvvisare, regalando alla posterità il momento in cui parla all’orecchio mozzato della vittima, non previsto in sceneggiatura.

Accanto alle azioni più grafiche e “esteriori” del personaggio, spicca il magnetismo della performance, la capacità di tratteggiare l’imprevedibilità e la follia con piccoli gesti, affidandosi in gran parte al carisma da Montgomery Clift, unito a una presenza minacciosa alla Mitchum, appunto. Un biglietto immediato per il successo, diventato subito la pietra angolare di una carriera. L’occasione del raddoppio si ripresentò immediatamente, perché Tarantino lo voleva nel ruolo di Vega in Pulp Fiction, ma ormai il carnet degli impegni era pieno e la firma per Wyatt Earp di Lawrence Kasdan (film di cui poi si è pentito), ha spianato la strada alla riabilitazione di John Travolta. E mentre è rimasto nell’eterno limbo dei sospesi quel Vega Brothers che doveva chiudere il cerchio e vederlo affiancato proprio all’ex Tony Manero, la piega che il prosieguo ha preso è stata un po’ ondivaga. Qualche titolo importante (Donnie Brasco di Mike Newell), ma tanti ruoli che hanno dato l’impressione di non investire più di tanto nel suo altissimo potenziale. Più di dieci anni dopo dal primo incontro, per fortuna, è comunque arrivata la riunificazione con il suo pigmalione Tarantino. Kill Bill è uscito fra il 2003 e il 2004 e il suo Budd spicca ancora oggi fra i personaggi migliori, sconfitto dalla vita e rintanato nel suo trailer nel deserto, ma capace con grande acutezza di dar filo da torcere come pochi alla Sposa di Uma Thurman, mentre risuonano le note di Per un pugno di dollari e L’arena (da Il mercenario), entrambi di Ennio Morricone. Anche qui l’aneddotica è generosa e si concentra in particolare sul cappello, che Madsen aveva portato in dote da un altro lavoro e Tarantino non voleva, salvo poi diventare il punto nodale del confronto fra Budd e il suo datore di lavoro abusivo Larry: basta che questi gli intimi aggressivamente di toglierselo dalla testa per dare definizione a tutta la frustrazione e la sconfitta del personaggio, quella che genera l’empatia verso il pubblico e ne definisce l’umanità. Meno è meglio, ancora una volta.

Poi nuovamente il ritorno alle piccole produzioni, ai ruoli cui prestarsi a corpo morto, pur con la contentezza di poter così girare il mondo (di fatto la maggior parte dei titoli della sua vasta filmografia non ha una scheda su Wikipedia). Di concreto c’era la possibilità di dare stabilità alla sua ampia famiglia (si è sposato tre volte e ha avuto sette figli), una vita che pure ha condotto fra alti e bassi, tra storiacce di alcool e abusi domestici (peraltro da lui sempre minimizzati). Ha lavorato altre due volte con Tarantino (in The Hateful Eight e C’era una volta a Hollywood) e ora in cantiere ci sono alcuni ruoli ancora inediti, che arricchiranno la lineup delle uscite per un altro paio d’anni almeno. Di certo sarebbe interessante poter leggere in italiano la sua produzione libraria, non molto numerosa ma che rimane il punto meno noto della sua carriera, capace magari di fornire altre sfaccettature sull’uomo e sul personaggio.
La scomparsa in casa è avvenuta invece in silenzio, consegnata alla posterità dal bel ricordo della sorella Virginia: “He was thunder and velvet. Mischief wrapped in tenderness. A poet disguised as an outlaw. A father, a son, a brother—etched in contradiction, tempered by love that left its mark”. Magari avrebbe schernito la solennità delle affermazioni, ma in cuor suo da poeta avrebbe sicuramente gradito.


