J’aime mon prochain, j’aime mon public
Tous ce que je veux, c’est que ça clique
Je me fous pas mal de la critique
Quand je chante, c’est pour le public
Je suis pas un animal de cirque
Ma vie à moi c’est la musique
Sui titoli di coda di Aline – La voce dell’amore il nome di chi ha firmato la supervisione alle acconciature arriva prima di quello delle sceneggiatrici. È un giusto tributo, per un film in cui Lemercier affronta centocinquanta cambi d’abito, in un arco narrativo che va dagli anni ’60 fino quasi ad oggi. Tanto più che la scrittura è tutt’altro che trascurata, in quest’opera che nonostante i tratti comici non è né parodia né biopic. Dopo un esordio nel cinema nel 1990 in Milou a maggio di Louis Malle, due César (per I visitatori di Jean-Marie Poiré e Un po’ per caso, un po’ per desiderio di Danièle Thompson) e sei film diretti all’attivo (tra cui È arrivato nostro figlio, uscito da noi in sala nel 2013, ora su Prime Video), l’attrice e regista Valérie Lemercier porta nel film una consolidata esperienza di scena e la sovrappone a quella di Dion, in un rispecchiarsi che affronta con ogni centimetro di fibra vitale. Se lascia la parte vocale alla cantante franco-italiana Victoria Sio, d’altra parte fa una scelta temeraria e sulle prime anche un po’ sconcertante: interpretare un doppio della Dion dall’età acerba alla maturità, con l’aiuto di effetti speciali e di invenzioni scenografiche, tra cui appunto svariate acconciature.
Presentato Fuori concorso a Cannes 2021, dettagliatissimo e autoironico, Aline nasce dall’immedesimazione di Lemercier con Céline Dion — un riconoscersi tra ex ragazze di provincia dall’estetica non conforme — e immagina l’ascesa di Aline Dieu (Lemercier), da un paesino del Québec fino all’impressionante record di show al Caesar’s Palace di Las Vegas. Aline Dieu viene da una canzone di Christophe e dal cattolicesimo della madre, imperiosa e iperprotettiva, che la concepisce in tarda età dopo altri tredici figli, tutti non professionisti della musica. Una corazzata familiare di fisarmoniche, tastiere Korg, voci e chitarre che scopre l’inaspettata potenza vocale della dodicenne (Mamy Blue) e la sottopone al vaglio del discografico Guy Claude Kamar (un adorabile Sylvain Marcel): l’uomo che non solo ne plasma l’immagine e lo stile, ma è dalla sua parte, contro ogni critica. Fuori dalla finzione quell’uomo è stato René Angelil, manager e produttore della popstar canadese, all’epoca della scoperta di Céline Dion ne aveva 38, ed è scomparso nel 2016 dopo aver condiviso con lei oltre venticinque anni di collaborazione, dodici di matrimonio e tre figli.
Aline non teme di rappresentare una grande storia d’amore contrastata e tutta interna allo show business, ma reinventandola come chi conosce la fatica e i meccanismi dell’industria e li riporta in una luce sentimentale, che non vuol dire sdolcinata o enfatica, ancorando la narrazione a solidi riferimenti musicali: Let’s talk about love, anche quando finisce (All By Myself). Ricorre infatti per tutto il film l’idea che anche per una star milionaria l’unica cosa che conti è l’amore, mentre Nature Boy punteggia i momenti chiave (the greatest thing you’ll ever learn…). In parallelo, scivolano nello script alcune leggi del mestiere, per chi ambisca a una carriera di successo: non dire che ti viene tutto facile, ringrazia il pubblico, firma le copie, falli sentire vicini. O come dice Guy Claude: “le canzoni sono al 45% spettacolo, quello che fa la differenza è quello che dai di te stessa”. Privo di didascalie e ricco di momenti di palco e soluzioni sceniche (come quella che evoca il nume tutelare Barbra Streisand), Aline schiva con accurata eleganza la pedanteria, il fanatismo, la riproposizione letterale del gesto artistico (per non fare nomi: all’opposto di Bohemian Rhapsody, generatore di sequenze decalcomania come la replica del Live Aid ’85). È preciso ma dalla distanza, senza esplicitare. Tra gli incisivi apposti e imposti al trucco a Rami Malek / Freddie Mercury e la scena in cui Aline affida i suoi canini al dentista passa insomma tutta la differenza del mondo: un’idea opposta, smitizzante, di messa in scena e di stardom (si veda il trattamento del periodo Titanic) tra maternità, trucco, attività stampa, in tour de force dalle pause strettamente necessarie. Come canta Robert Charlebois in Ordinaire, un pezzo che come molti altri Dion ha fatto suo: “Sono una cantante popolare, una donna come tante”. Ma anche una performer innamorata, una Woman In Love. Quest’omaggio alla ferrea arte della performance lo mostra magnificamente.