Un reduce della Prima Guerra Mondiale, ancora in uniforme, arriva a Fairfax, Oklahoma. Siamo all’inizio degli anni Venti, lui non ha trovato un posto del mondo ed è lì per chiedere a suo zio – uno degli uomini più potenti della regione, tanto potente da farsi chiamare “King” – di trovargli qualcosa da fare. Ernest Burkhart non è particolarmente sveglio, ma impara presto e, su consiglio dello zio, si mette a fare l’autista. A Osage County c’è il petrolio, ma la terra appartiene alla comunità dei nativi americani, considerati però incapaci di pensare ai loro affari: i soldi sono amministrati da funzionari bianchi che devono approvare o meno le richieste dei legittimi proprietari, quasi a concedere una paghetta. “The King” si muove mellifluo nella “sua” terra, si dichiara amico di tutti, apparentemente è distante dalla corsa all’oro nero, si accontenta di allevare mandrie sterminate. Ernest diventerà l’autista di Mollie, una Osage “purosangue”: una donna da sposare per mettere le mani su quella terra così ambita. Intanto, misteriosamente, si moltiplicano le morti improvvise e violente di molti membri della comunità Osage. Nessuno sembra sapere niente – e c’è chi vorrebbe insabbiare tutto, soltanto maledire un fato avverso – fino a quando l’intervento del Presidente Coolidge, informato del caso da una delegazione Osage a Washington, incarica l’FBI – appena passato sotto la direzione di Edgar J. Hoover – di indagare sul caso.
C’è un bel pezzo di storia americana in Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese (fuori concorso a Cannes76): c’è il sopruso razziale e la violenza capitalista, ci sono sfruttamento e morte, tradimento e doppi giochi. Il tono del film, che dura più di tre ore e mezza, è ampio, epico, onnivoro. Le immagini hanno un respiro classico, luminoso, maestoso. Le inquadrature della villa di Bill “King” Hale ricordano Il gigante di George Stevens; la messa in scena è sontuosa eppure mai ostentata. L’uso consapevole del campo e controcampo, di inquadrature lunghe, di un montaggio mai frenetico regala al film un’aria solenne resa però brillante da una sceneggiatura che, nonostante la bollente materia trattata, si concede alcuni momenti da commedia. Killers of the Flower Moon è uno schiaffo politico al capitalismo americano, un film in cui i rapporti di forza sono sempre gli stessi anche se apparentemente rovesciati: i benestanti Osage sono pedine da sfruttare, sottomettere e, quando serve, uccidere. Ernest, uomo pigro e attento al denaro, violento se serve, bevitore tonto e umile esecutore di ordini, è un soldato semplice nell’ingranaggio del potere. Leonardo DiCaprio lo tratteggia con ferocia: un’andatura goffa, una parlantina superficiale, un grugno con la bocca all’ingiù a donargli un’aria scimmiesca nel momento in cui la sua implicazione personale vira verso la tragedia.
Il Bill “King” Hale di Robert De Niro è speculare: in superficie autorevole e benevolo con tutti – accogliente con i familiari, punto di riferimento dell’autorità, amico degli Osage di cui conosce lingua e cultura – è l’epitome della crudeltà di una società fondata sul denaro, sull’immoralità, sullo sfruttamento. De Niro gioca sin dall’inizio su questa doppiezza, infilando tra un discorso bonario e un gesto protettivo uno sguardo di luce luciferina. Al centro di questo mondo maschile abusivo e crudele c’è Molly (una magnifica Lily Gladstone), che si batterà per i diritti della propria comunità fino in fondo, anche a costo di rischiare la vita. Scorsese smaccatamente racconta il film dalla parte degli Osage mettendo al centro della narrazione le nefandezze commesse contro di loro. Il punto di osservazione è quello del maschio bianco, amorale e avido, colonialista nell’animo e assassino nelle azioni. Nel film si dipana la faccia oscura dell’America: accanto ai crimini di Osage County c’è il massacro di un quartiere afroamericano – di schiavi liberati – di Tulsa, mentre il Ku Klux Klan sfila trionfante nelle vie cittadine. Scorsese è implacabile nel descrivere la depravazione dei suoi protagonisti, aumenta la tensione in un film talmente stratificato da non mostrare cedimenti nonostante la lunghezza fino a esplodere in un finale di pura creatività che fa splendere gli occhi e che ci ricorda il potere – evocativo, narrativo, simbolico – tipico del grande cinema.