Il capitolo finale della trilogia del Cairo di Tarik Saleh, dopo Omicidio al Cairo e La cospirazione del Cairo è “un noir puro, con al centro una domanda esistenziale fondamentale: Devo inchinarmi a questo sistema?”. A fare la differenza il fatto che la storia è ambientata nel mondo del cinema egiziano, con la star George El-Nabawi al centro di una profonda trasformazione che coinvolgerà il suo personale sentire e tutti i suoi cari. L’attore Fares Fares dà volto e energia a questo personaggio istrionico e egocentrico, che dimentica il compleanno del figlio, ama essere al centro dell’attenzione e vive superficialmente, in linea con il cliché del divo e perfettamente a suo agio nel suo microcosmo di privilegi. Proprio quelli che lentamente gli vengono sottratti quando rifiuta la “proposta” degli eminenti uomini del governo di interpretare un film che esalta l’ascesa al potere del presidente/dittatore egiziano Abdel Fattah el-Sisi. Inutile il suo arrogante rifiuto. Ai desideri del potere non ci si può sottrarre perché la posta in gioco non è solo la carriera, ma la sicurezza della sua stessa famiglia. Ed eccolo, dunque, precipitare in una girandola potenzialmente infinita di ricatti, false lusinghe, giochi di forza, inganni ad infittire una trama che si complica e si arricchisce via via che il film procede.
Eagles of the Republic, girato interamente in Turchia essendo interdetto l’accesso in Egitto al regista (egiziano di origine ma svedese di adozione), procede per accumulo, si trasforma più volte, cambia tono e registro, facendosi cupo, cerebrale, mentre l’ambiguità dei personaggi e dei loro ruoli diventa morbosa. La scommessa vinta da Saleh è proprio la sua capacità di comunicare la disfatta attraverso un lungo percorso ad ostacoli, una gara di equilibrio tra i poteri ottusi e l’intelligenza vivace di un uomo che cerca fino in fondo di superare da solo ogni difficoltà. Manipolatore raffinato ma ingenuo, che alla fine scopre di essere l’oggetto di manipolazioni ben più profonde e grezze, ma vincenti. Il potere come la tela di un ragno, rappresentazione spietata e coraggiosa che Saleh sa trasformare, appunto, in un noir politico, ispirato nella forma al grande cinema di genere egiziano, come testimonia la lunga sequenza iniziale che rende omaggio alla tradizione di manifesti disegnati a mano degli anni Cinquanta e Sessanta, pieni di pathos e colori, di movimento e doppi sensi. Sempre splendidamente sul punto di scivolare nel melodramma, anche quando la propaganda sembra divorare tutto il resto e il cinema viene usato, ancora una volta, come strumento di un racconto mendace della realtà.