Cry Macho di Clint Eastwood e i detour per tornare a casa

Ha un lavoro da portare a termine Mike Milo e nessuno lo potrà fermare. Il nuovo film di Clint Eastwood Cry Macho – ritorno a casa (adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 1975 scritto da N. Richard Nash, autore della sceneggiatura insieme a Nick Schenk) pone l’eroe sfuggente e laconico di sempre al centro di un road movie insolito, al confine tra Messico e Texas, per portare dal padre un tredicenne che vive a Mexico City con una madre disattenta, ricca e avida. Un viaggio semplice, andata e ritorno in pochi giorni, a bordo di una vecchia Chevrolet arrugginita. Viene in mente The Mule, per il suo andamento lento, per il ghigno con cui l’ex texano dagli occhi di ghiaccio riesce ad affrontare le emergenze, prendendendosi gioco delle regole e di chi crede di ingannarlo. Pacato come il tono del film, che scivola via tra cavalli selvaggi e tramonti infuocati. “Ho amato molto gli animali per tutta la vita” dice all’inquieto Rafo in piena crisi identitaria, che non sa se essere un gringo o un cowboy, ma non sa cavalcare e non si fida di nessuno (e ha voglia di potersi fidare). Eastwood sorvola sul western sfiorandone i cliché: il vecchio domatore di cavalli e il ragazzo cui passare il testmone. Dal Pistolero a Honkytonk Man, ma con un’ironia contagiosa, che sdrammatizza le violenze, le fughe, il mito stesso del Far West, perché Cry Macho vuole spazzare via ogni stereotipo e guardare in faccia la vita vera con la saggezza di chi ha la schiena curva e preferisce dormire all’aria aperta.

 

 

E così quella che altrove sarebbe stata una fuga a rotta di collo, qui è un viaggio lento, pieno di deviazioni, strade sterrate e paesini in cui fermarsi, per cambiarsi d’abito o danzare con una stupenda vedova messicana. Non più l’analisi dei meccanismi corrosivi del potere, il bene e il male schierati e contrapposti (gli inganni degli uomini sono lasciati fuori da questa storia), ma la capacità di una distanza ormai acquisita e serena, battute brevi, gesti minimi e una tensione autoriflessiva che pervadeva già i film più recenti di Eastwood. Un racconto che si stempera in leggenda, una messa in scena essenziale, asciugata da ogni orpello e uno sguardo più che mai classico, talvolta grezzo ma sapiente. È come se William Munny, Broncho Billy, Walt Kowalski dialogassero tra loro di una vecchiaia impossibile da curare, facendo i conti con se stessi e una nuova umanità semplice da cui farsi avvolgere. Mike/Clint osserva uomini e animali con stupore e dettaglio e scavalca i confini emotivi, prima ancora di quelli fisici e politici (ma siamo negli anni Ottanta del Novecento e il muro di Trump tra Messico e Usa ancora non è stato costruito). Conosce il linguaggio dei segni per parlare con una bambina sorda (“sono cose che si incontrano nella vita”) e si addormenta in una chiesa, finalmente quieto e ben lontano dai tormenti sulla fede che affliggevano Frankie Dunn in Million Dollar Baby. La forza di Cry Macho sta nella limpidezza di ogni discorso “questa cosa del macho è sopravvalutata” dice Mike al ragazzo che ha chiamato Macho il suo gallo da combattimento. “Tu pensi di avere tutte le risposte, ma poi invecchi, e ti accorgi di non averne nessuna. E quanto te ne rendi conto, è troppo tardi”. Mike Milo mette a nudo Clint Eastwood, dunque, e svela segreti di molti suoi personaggi, li evoca in veloci inquadrature e parole e gesti che hanno reso e rendono i suoi film imprescindibili.