Dall’evoluzione alla trasversalità: Transformers – Il risveglio, di Steve Caple Jr.

L’aspetto ancora poco considerato della saga di Transformers è quanto la sua parabola costituisca una perfetta cartina di tornasole per l’attuale situazione cinematografica, con ovvio riferimento ai cosiddetti franchise. Fin dalle origini, infatti, ovvero sin da quando la Hasbro acquistò i diritti delle linee di giocattoli Diaclone e Mico Change della Takara, riorganizzandole nella forma oggi più familiare della faida tra Autobot e Deception, l’idea era basata su un autentico concetto di evoluzione: si prende un elemento e lo si trasforma in qualcos’altro. Così come un’auto può diventare un robot, allo stesso modo una linea di giocattoli giapponese può generarne un’altra americana con un focus differente. Ogni transizione e passaggio di stato ha nel tempo rispettato questa regola tanto semplice quanto complessa, attraverso le varie articolazioni economiche e espressive del brand: i fumetti Marvel hanno fissato alcuni elementi, poi lasciati evolvere attraverso le serie animate, che a loro volta hanno poi rinnovato sia la forma espressiva (tra animazione 2D e pionieristici usi della cgi) che i design dei personaggi, sulla labile traccia concessa dall’idea di fondo delle due fazioni in lotta. A ripensarci oggi, Transformers è stata un’efficace palestra attraverso cui concetti quali il multiverso e la difformità stilistica sono diventati materiale di prima mano per tanti giovanissimi (anche quando simili termini non venivano direttamente utilizzati), stabilendo un patto fecondo per gli appassionati: il gioco può continuare all’infinito attraverso la perenne trasformazione dei suoi elementi e sullo scaffale possono campeggiare indisturbate molteplici versioni di Optimus Prime e soci.

 

 

L’approdo al cinema, attraverso la visione avveniristica portata avanti da Michael Bay, aveva segnato in questo senso un perfetto e ulteriore gradino per la dinamica finora evidenziata: i robot diventavano ammassi avveniristici di pixel, con trasformazioni complesse all’interno di narrazioni dai ritmi isterici, in una ricerca della visionarietà totale che – altro aspetto poco compreso – anticipava e superava il concetto di cartoonizzazione del reale che di lì a poco si sarebbe avuto con gli “universi” supereroistici. Prova ne sia quanto un film come Avengers, “ruba” figurativamente da pellicole come Transformers 3, di cui appare quasi come una versione “normalizzata” in una narrazione più lineare e vicina al concetto del blockbuster “tradizionale”, così come codificato dagli anni Ottanta in poi. Da questo versante, il processo di reverse engineering che la saga ha poi dovuto subire con una pellicola come Bumblebee, è parimenti interessante: in un sol colpo sono stati rimossi tutti gli elementi futuristici istillati da Bay, per un “ritorno” alla tradizione, in ossequio al desiderio nostalgico degli appassionati della prima ora, cresciuti con la serie animata del 1984. Il tutto all’interno di una storia che, ambientandosi prima dei film di Bay, può riscriverne le coordinate in maniera “morbida”. Davvero un corto circuito incredibile, perché presuppone un guardare indietro, applicato a un’idea da sempre basata sull’andare avanti, ormai inevitabile nell’epoca della monetizzazione della nostalgia. Una manovra imposta con la forza anche a una saga che dovrebbe quindi risultarne immune, ma che ugualmente non può ormai prescindere dalle rivendicazioni partigiane degli appassionati della prima ora. Bumblebee, insomma, è di fatto un film-deepfake, al pari degli zombie digitali di Peter Cushing e Luke Skywalker nella saga di Star Wars.

 

 

Con il nuovo Transformers: Il risveglio, si cerca invece di trovare un compromesso impossibile fra nostalgia e rinnovamento, attraverso una formula che recuperi la grandeur di Bay, all’interno di una confezione comunque “rassicurante” per il pubblico che conosce l’ampia articolazione del brand. Alla trasformazione subentra così la trasversalità: i personaggi “storici” restano gli stessi del passato (i design di Optimus Prime e Bumblebee sono ripresi rispettivamente dal film precedente e dal capostipite del 2007) mentre si recuperano altre fazioni sinora lasciate fuori dalla narrazione cinematografica. Il riferimento particolare è ai Maximal, i transformers animali protagonisti dell’acclamata serie animata Beast Wars (da noi Biocombat) che nel 1996 segnò un importante punto di rinnovamento del brand. Optimus Primal e compagni irrompono così sulla scena dei “loro” anni Novanta in cui è ambientata questa storia, per interagire per la prima volta con i robot “classici” e dar loro motivazioni che vadano bene tanto per un disilluso Optimus Prime, quanto per il protagonista umano di turno, l’ex soldato Noah che fatica a trovare il proprio posto nel mondo.

 

 

L’importanza di creare coesione tra fazioni differenti (Maximal, Autobot e umani) diventa così il leitmotiv di un film che tenta di rimettere insieme un percorso altrimenti destinato all’impasse. L’ambientazione presso l’altopiano peruviano di Machu Picchu rinnova in questo modo il gusto esotico e la prospettiva globale cara ai film di Bay, mentre permette alla battaglia di mantenersi “contenuta” e fuori dai centri troppo abitati, per non compromettere eccessivamente la continuity pregressa (comunque riscritta dalla presenza del dio malvagio Unicron in una forma diversa da quella intravista in Transformers: L’ultimo cavaliere). L’operazione può dirsi in parte riuscita, sebbene emerga evidente ormai la prospettiva totalmente industriale entro cui la saga deve muoversi per non eccedere in un senso o nell’altro e che la rende ormai materia per i soli iniziati. Steve Caple Jr. si mette così al servizio di un’operazione non troppo dissimile da quella già portata avanti in Creed II, mentre il finale semina nuove prospettive trasversali per le future evoluzioni della saga.