Dipartimento del Giura, terra di vini e di formaggi, di sudore e fatica, Francia orientale lontana da Parigi e dal cinema. È qui che è cresciuta, per poi formarsi alla CinéFabrique di Lione, Louise Courvoisier, classe 1994; è qui che si sostanzia Tutto in un’estate! (Vingt Dieux, Holy Cow è il titolo internazionale), suo lungometraggio d’esordio scritto con Théo Abadie, Prix de la jeunesse in Un Certain Regard di Cannes 2024, tra le altre cose. Il piano sequenza in apertura è un ingresso che, furtivamente, come un gioco leggero di documentario en plen air, accarezza le esistenze delle persone, degli animali, le storie minime formicolanti e invisibili, è un abbraccio allegramente timido, nitido sguardo appassionato sulle cose che s’infila dentro un senso comune, collettivo, in una narrazione deviata sulle traiettorie incerte del protagonista e declinata in mappatura polverosa e abbagliante del lutto e del desiderio, dello smarrimento e del destino sospeso, della disperata, vitale rincorsa a una rifusione affettiva, a una prossimità, a un contatto tattile col mondo, con l’altro, per percepire nuovamente, o forse per la prima volta, sé stessi. Il racconto di formazione s’aggancia allora allo scope caro al western, la verità dell’innamoramento si confonde con piccoli inganni e attenuanti al seguito, il dolore s’accartoccia in una rimozione scadente, la solitudine cerca nuove trame nell’avventura, la fuga in avanti è una forma narrativa, è un genere in cerca dei suoi puntelli, un inclinato essere nel mondo.
Il diciottenne Totone (Clément Faveau) – magrezza di un Semola disneyano, volto che è facile immaginare in un film di Ken Loach, in sella a una moto che vola via da un film di Spielberg –, ragguardevole indolenza che si ritrae solo se nei paraggi ci sono alcol e amici, senza arte né parte che s’intravedano, si ritrova improvvisamente solo a dover badare alla sua sorellina di 7 anni: Il loro papà è morto nella notte, alla guida della sua auto, mentre il figlio sfuggiva alla vendetta di coetanei oltraggiati. Non hanno una madre né parenti che possano aiutarli, e più in generale le presenze di adulti latitano in questo Vingt Dieux, presenze laterali, occasionali, distanti, sono caratteri sovente incapaci di comprendere: il movimento del film appartiene invece a storie di fratelli e sorelle come lo sono il protagonista e la piccola Claire (Luna Garret), come l’allevatrice Marie-Lise (Maïwene Barthelemy) e i suoi fratelli che si vogliono padroni ma che sanno padroneggiare assai poco (e anche la regista, del resto, si avvale del contributo della sorella Ella, scenografa, e del fratello Charlie per le musiche). Giovani attori non professionisti chiamati a interpretare vite a loro più o meno vicine, ad abitare spazi a loro familiari, odori, olezzi, luci, colori noti. Sono i volti, i luoghi che Courvoisier conosce e vuole raccontare, figure che evidentemente ama, e che ama prendere in contropiede, per confonderle e insieme posizionarle di fronte a quelle responsabilità non più rinviabili, figure in bilico tra il reale e l’immaginario, tra le albe e i tramonti, il sonno alcolico e la veglia sporca, l’egoismo ingenuo e la solidarietà spontanea, lo scacco e le minuscole, insperate vittorie.
La storia di un ragazzo che, con l’aiuto dei suoi affezionati compari, tenta malamente, caparbiamente, di produrre il miglior formaggio Comté, delizia della regione, per intascare un cospicuo premio e mettere a posto la sua vita e quella di Claire, è la logline minuscola e nervosa di un film che nella relazione (tra il paesaggio e i personaggi, tra i corpi e la coscienza, gli animali e gli umani – la nascita del vitellino nel momento che meno indicato non si potrebbe, per Totone –, l’amicizia, la famiglia o quel che ne rimane, l’ipotesi di un amore germinale deprivato dei crismi d’ufficio) cerca la sua verità sospesa, la sua fondazione critica, il suo salto nel vuoto che è anche la sua dolce ironia. Perché Totone non sa fare l’amore e non sa fare il formaggio: la questione profonda è tutta qui, è questo esatto rispecchiamento ad inciampare nel filo invisibile di Tutto in un’estate!, proprio nel suo grumo interiore.