Dumont fra lotta di classe e mostruosità quotidiana

2072934Su una costa magnifica e frastagliata della Normandia di inizio Novecento, dominata dalle falesie e da una natura a cui non è facile adattarsi, iniziano a scomparire dei turisti. Un mistero che l’obeso ispettore Machin e il suo assistente, il rosso efebico Malfoy, vogliono risolvere. Ma cosa si nasconde dietro la facciata di questo luogo apparentemente idilliaco dove, durante l’estate illuminata da cieli infiniti e tersi, si mescolano due comunità apparentemente inconciliabili, i pescatori proletari Brufort e gli aristocratici Van Peteghem, deformi nel fisico e nel morale? Bruno Dumont, rinvigorito dal successo di P’tit Quinquin, miniserie televisiva presentata alla Quinzaine del 2014, raddoppia la deriva grottesca dell’opera precedente mettendo in scena una furibonda lotta di classe con i toni di una farsa, dispensando generosamente un cinismo ghignante che cresce fino all’esasperazione e alla saturazione. Ma Loute – è il nome del figlio maggiore della tribù dei Brufort – miscela tracce di romanzo poliziesco con la rappresentazione estroversa di due mondi contrapposti, ognuno osceno a suo modo: il branco animalesco di pescatori, che alterna la raccolta delle cozze sugli scogli al cannibalismo quotidiano, e la famiglia ricca e incestuosa, sessualmente indefinita e smaccatamente garrula.

MaLoute

Dumont sembra divertirsi a distillare dai suoi protagonisti eclatanti tracce di disumanità: il tondo investigatore, letteralmente un pallone gonfiato; il gobbo capofamiglia, benestante e ottuso; le starnazzanti signore altolocate; i volti lombrosiani del sottoproletariato ferino e vendicativo. Al centro del racconto s’incastra la potenziale storia d’amore di Ma Loute con il/la nipote dei Van Peteghem, bellezza efebica che alterna, confondendo, le proprie tracce di una sessualità incerta. Dumont lascia correre a briglia sciolta la sua torma di attori – Fabrice Luchini, Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi tutti immancabilmente sopra le righe – che riempiono i personaggi balbettando, evidenziando difetti di pronuncia, strillando e starnazzando, roteando gli occhi. Un coro assordante che evidenzia 1655una caratterizzazione ridondante e compiaciutaa tratti stucchevole e zoppa. E se la naturalezza con cui i Brufort assaporano piedi e mani delle loro vittime ha il sapore di una feroce satira di rivendicazione sociale, l’affresco della stupidità della classe dirigente, all’ennesimo gorgheggio ammirato delle signore di fronte al paesaggio, mostra un fiato un po’ corto. La regia barocca di Dumont asseconda consapevolmente il gusto da pochade ma la ricerca continua di un rimescolamento di toni e sfumature, fisiche e morali (l’orrido e il sublime, il cinico e il sentimentale, l’alto e il basso, il tondo e il lungo), finisce per rendere meccanico un film che, coerentemente con la poetica del suo autore, cerca continuamente di trovare una catarsi mistica nella mostruosità quotidiana, di scovare nel triviale le tracce dell’infinito e della grazia. Quella grazia che in Ma Loute s’intravede appena, evidente solo nelle scene di silente sospensione in cui i due potenziali amanti adolescenti si studiano senza riuscire a conoscersi fino in fondo, guidati da una pulsione che le loro inconciliabili differenze finiranno per annegare in un mare che non regala protezione.