Esistenze curvilinee: Le città di pianura, di Francesco Sossai

La scrittura di una mappa interiore, come l’ha definita lo stesso Francesco Sossai, bellunese alla ricerca delle proprie radici, è al cuore di Le città di pianura (visto al Certain regard di Cannes78), film su una condizione che da personale tramuta in universale un sentimento profondo verso la terra originaria, mentre il mondo è fotografato in una fase irreversibile di transizione e smaterializzazione. Qui al suo secondo lungometraggio dopo l’esordio Altri cannibali, Sossai compone un’elegia della provincia veneta, delle sue contraddizioni e della sua amabile complessità, attraverso lo sguardo di figure poste al limite, sconfitti e dimenticati dalla vita e dalla società: Carlobianchi e Doriano (interpretati dagli ottimi Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla), due spiantati cinquantenni amano alzare il gomito, passare da un bar all’altro per bere l’ultimo bicchiere, ridere dei guai, ricordare e parlare. Due beoni, due amici, due figure appartenenti ad un altro tempo, presenze umane paradigmatiche che restituiscono il ritratto «di una vera e propria Lost Generation: quella degli uomini nati negli anni Settanta, in un contesto di estremo sviluppo economico, che dopo la crisi del 2008 si è ritrovata a fare i conti con un mondo radicalmente diverso».

 

 
Le città di pianura è quindi un road movie atipico, improntato sull’idea di strada che deve essere attraversata e vissuta, perennemente in bilico, barcollando, in cerca di un appiglio, senza avere un vero approdo non perché non si riesca a trovare ma perché non esiste più un luogo in cui essere visti e ritenuti utili. Carlobianchi e Doriano incarnano una profonda idea di libertà nel senso più autentico del termine, inafferrabili e non collocabili nel mondo, come lo stesso film del resto, conducono un’esistenza slegata ma salvifica. Lo sottolinea ripetutamente la pseudo-soggettiva in auto, di notte, a fari accesi, tra le curve della provinciale mentre case decadenti e dormienti osservano e si lasciano osservare impassibili. Una ricerca ondivaga, per nulla naif, dedicata all’osservazione di una fase di passaggio che conduce al tramonto, nei pressi di una fine ancora lontana ma tutto sommato vicina. È il viaggio ipnotico di anime smarrite, sconfitte forse ma non sole, che ancora hanno voglia di resistere, a modo proprio, figli e stranieri in un mondo irriconoscibile o che, più probabilmente, non li riconosce.

 

 
Le città di pianura è un film respingente perché Sossai non si limita a ricreare tra i suoi personaggi e lo spettatore un patetico processo di identificazione, bensì mira a ridefinire un processo di meraviglia e stupore dello spettatore nei confronti dei personaggi, abbagliato da una presenza forte e trainante. Storia di amicizia e sbronze, ma anche storia di incontri e avventure come indica la figura di Giulio (Filippo Scotti) che si unisce ai due, altro esemplare in via di estinzione (un umanista, anche lui al crepuscolo, stretto nel mondo odierno) che vivrà il suo romanzo di formazione in bilico tra le atmosfere de Il Sorpasso e Amci miei. Sossai abbraccia così l’idea di un racconto molto intimo che riflette in modo tragico sul tempo pur riuscendo a concedere qualche sorriso e una apparente tregua. Il film, oltre che affondare in più di un’occasione il dito nella piaga delle trasformazioni urbane, punta, come da Sossai dichiarato a «raccontare persone colte in un momento di crisi o di passaggio perché in quei momenti siamo più aperti a ciò che di casuale la vita può porci davanti: sono persone che pur non sapendo dare un nome al male che li affligge, al contempo hanno una speranza assoluta nella propria guarigione». E se il futuro passasse da queste visioni del passato così sghembe ma altrettanto genuine?