Il crepuscolo dell’occidente in Il Mohicano, di Frédéric Farrucci

Gran parte di ciò che accade nel film di Farrucci è dovuto all’ambiente naturale, alle sue asperità, alla sua intima e dura selvaticheria che mimetizza la fuga di Joseph (Alexis Manenti), pastore corso che vuole difendere la tradizione e la ricchezza naturale della costa dove vive dalla speculazione altrettanto selvaggia che si serve della mafia locale per strappare i terreni della costa a sud della Corsica per sfruttarne economicamente il potenziale. Da qui l’appellativo di Mohicano, in nome di una ormai leggendaria fama che il romanzo di Fenimore Cooper ha diffuso per gli ultimi protagonisti della tribù dei nativi americani. Strutturato come un western, il film di Farrucci sembra volere catturare una storia, dispersa e quasi banale, che si consuma tra le pietre e i boschi della Corsica, mentre intorno scorre la vita dell’isola e del resto del mondo. Nella vicenda di Joseph braccato dal sud al nord dell’aspro territorio, per l’omicidio compiuto e per quelli che sarà costretto a commettere per difendere la sua vita di pastore e il senso di appartenenza alla sua isola, vi si ritrova il pessimismo della ragione che sembra destinato ad annientare ogni speranza di resistenza.

 

 

Non è augurabile, in altre parole, che la difesa della libertà e della Terra debbano passare necessariamente da un filtro di violenza e di morte trasformando la propria vita in quella di un eterno fuggiasco. Il racconto della fuga del giusto, in un mondo di ingiusti, con il supporto silente ma a tratti esplosivo dei social media, con la rivolta che coglie l’occasione per modificare il corso del tempo, è appassionante, come in ogni western che si rispetti e Il Mohicano, come ben dice il press book del film, in fondo è un western con tanto di ingiustizia, di difesa della legalità vera, con altrettanta dose di arroganza da parte dei prepotenti di turno e di sangue che viene sparso spesso dagli innocenti per la difesa dei diritti. Ma c’è, soprattutto, a caratterizzare la sua natura di appartenenza, la fuga drammatica e solitaria che si trasforma in occasione di solidarietà man mano che la fama del pastore che difende i luoghi e le tradizioni si fa strada tra chi la pensa come lui – e sono in molti – che non lesina accoglienza e copertura contro ogni crimine che nasca dalla prepotenza. È su queste direttrici già sperimentate e quindi sicure che si sviluppa il film e la storia di Joseph e di sua nipote, la assai resistente Vannina (Mara Taquin). Poi ci sono gli scenari naturali che restano i silenziosi coprotagonisti del film. Tutto accade per preservare la loro bellezza e il loro intrinseco fascino. La Corsica diventa così la Terra di un’ultima resistenza, l’isola dove si prepara un’altra dolorosa sconfitta che vive nella solitudine del protagonista, assediato dalla malavita locale e poi dal giudizio per i crimini che ha commesso in quel farsi giustizia da sé che è la più tragica manifestazione di un senso di solitudine che non ha scampo.

 

 

È per questo che il film di Farrucci porta con sé un altro carico di inguaribile pessimismo, restando un western di un crepuscolo europeo e più largamente occidentale. Un racconto che esalta una sorta di solitudine esistenziale senza sbocco, senza speranza nell’epoca ormai da anni consolidata di tristi passioni che neppure il diffuso, ma frammentato senso di rivolta, e per questo vano, sa ravvivare. Da qui forse il carattere più prettamente politico del film del corso Farrucci, che testimonia nella esplicita diserzione dal pensiero vincente del suo personaggio l’attaccamento alla sua isola in un finale lirico, che conferma in Vannina una possibile e flebile continuità. Farrucci guarda il mondo da queste prospettive che si fanno sempre più nebulose, incerte, come i disegni che restano tracce sui muri, ma nessun ottimismo può trovare luogo, in quel residuo di principi che sembrano superati per sempre, né al cinema, né nella vita reale.