Nel 1963, l’amazing Spider-Man creato da Stan Lee con Steve Ditko dopo i rivoluzionari Fantastic Four (con Jack Kirby) ha già sufficientemente terremotato le fondamenta del fumetto supereroico americano sollevandolo dalle secche di scrittura in cui i suoi portabandiera della “Distinta Concorrenza” DC (segnatamente Superman, Batman e Wonder Woman) erano già finiti da tempo. La Marvel, del resto, si era già autoproclamata Casa delle Idee e la vulcanica e incontenibile creatività di Stan Lee stava già per partorire altre decine di personaggi destinati a far compagnia ai lettori di tutto il mondo per i cinquant’anni successivi. Ma nel luglio di quell’anno accade qualcosa di davvero speciale: sul numero 110 della longeva testata antologica Strange Tales, solitamente occupata da racconti “strani” come recitava il titolo e priva di personaggi fissi (sebbene da qualche tempo appaltata a racconti spin-off della Torcia Umana), fa il suo debutto il dottor Stephen Vincent Strange, originariamente master of black magic e poi destinato a diventare sorcerer supreme (ossia stregone supremo) dell’universo Marvel. Per la prima volta, i “poteri” di un personaggio della casa editrice non provengono da esposizione a raggi gamma, raggi cosmici, insetti radioattivi o fattori mutanti (gli X-Men arriveranno comunque qualche mese dopo), ma direttamente dal mondo dell’occulto.
Il Dottor Strange, infatti, è un abilissimo, avido, egocentrico e spocchioso neurochirurgo semialcolista la cui brillante carriera viene disintegrata da un incidente stradale che lo priva dell’uso dei nervi delle mani riducendolo a uno stato di prostrazione psicologica tale da trovare asilo presso il monastero di una sorta di eremita noto come l’Antico che la leggenda vuole dotato di infallibili capacità di guarigione. Il vecchio, però, si rifiuta di curarlo poiché intuisce le sue potenzialità di apprendimento delle arti mistiche: e lo trasforma suo malgrado in una sorta di mago dopo essere stato da lui salvato disinteressatamente dal tradimento di uno dei suoi più fedeli discepoli, il barone Mordo [con cui qualche tempo dopo scoprirà di avere avuto “contatti” onirici sin dai giorni della sua infanzia, suggerendo una sorta di predestinazione del personaggio che farà discutibilmente tabula rasa del rapporto di causa/effetto alla base delle sue prime gesta].
Il personaggio, protettore della Terra dalle ingerenze di forze oscure soprannaturali come il temibile semidio Dormammu, è creato in toto da Steve Ditko, artista tra i più misteriosi mai espressi dal fumetto americano (da almeno cinquant’anni non esistono sue fotografie né riprese, come ben sa il regista Peter Boyd Maclean, autore nel 2007 di un pregevole documentario di un’ora per la BBC che indaga proprio sulla sfuggevolezza del cartoonist), e solo successivamente sceneggiato in coppia con Stan Lee: ed è nella libera concezione dell’universo di Strange che il talento visionario e psichedelico ante litteram del suo creatore ha modo di toccare vertici immaginifici eguagliati in seguito solo dal lavoro di John Buscema su Silver Surfer o dalla ciclopicità inarrivabile del Jack Kirby visionario della maturità. Tanto che i fumetti di Doctor Strange, qualche anno dopo e una volta guadagnata una sua testata eponima, diventano di culto non tanto presso il pubblico dei ragazzini affascinati dagli eroi in calzamaglia quanto tra i cresciuti studenti dei college dell’America liberal, più intrippati con Aldous Huxley e le fascinazioni delle sottoculture (o controculture) aperte alle prime sperimentazioni “psicotrope” e inevitabilmente permeate del misticismo arcano delle religioni “alternative”. Ed è proprio da queste premesse, opportunamente risagomate (ma non troppo) per l’occasione (nonché dalla miniserie del 2006 Il giuramento, scritta da Brian K. Vaughan e disegnata da Marcos Martin), che prende le mosse il nuovo comic movie dei Marvel Studios Doctor Strange: ovvero il quattordicesimo dei film interconnessi (e incasinati) prodotti nell’ultimo decennio da Kevin Feige e l’apripista definitivo al dittico Avengers: Infinity War dopo l’ormai imminente Thor: Ragnarok. Lo spettatore più attento noterà infatti che proprio nel rituale, immancabile cameo di Stan “The Man” Lee risiede scherzosamente (ma non troppo) una delle possibili chiavi di lettura estetica dell’intero progetto: in una straordinaria sequenza d’azione in cui le architetture urbane implodono e si modificano come in una perversa alterazione della realtà di sapore piranesiano ed escheriano (con buona pace di chi invece vorrà vedervi “solo” una citazione di Inception), il decano dei comics compare infatti come il passeggero di un autobus che ha tra le mani proprio una copia di The Doors of Perception di Huxley e non resiste alla tentazione di commentare la sua impegnativa lettura con un fulminante “È troppo divertente!”.
Negli ultimi tempi, sono molti i film del genere che giocano con gli squarci della loro natura autoreferenziale e metacinematografica in questa misura giocosa; e i più avanzati (Doctor Strange è fra questi) riescono anche ad autointerpretarsi in modo così superficialmente profondo da recidere alla base e rendere superflua, irrilevante o pleonastica qualsiasi altra operazione critica sul loro testo. Scott Derrickson, talentuoso regista di horror (vedi alla voce Sinister) e già responsabile del sottovalutatissimo remake di Ultimatum alla Terra di Wise, sembra avere le idee ben chiare in questo senso; e soprattutto sembra aver affrontato la trasposizione filmica definitiva del personaggio [tacciamo dello sciagurato TV movie del 1978 diretto da Philip DeGuere che avrebbe dovuto essere il pilot di una serie fortunatamente mai realizzata, nonché dei numerosi ma inani tentativi di adattamento abortiti degli ultimi trent’anni (anche se ci resta la curiosità di capire come lo avrebbe trattato Wes Craven, che nel 1992 aveva firmato un contratto per una sua versione poi non realizzata)] con una conoscenza della materia davvero capillare. Tant’è che, sorprendentemente, è stato incaricato dai Marvel Studios oltreché di dirigere il film anche di sceneggiarlo (con la collaborazione di Jon Spaihts e C. Robert Cargill): e oltre ad aver trattato le origini del personaggio con il massimo rispetto per le vicende narrate negli albi a fumetti, ha anche avuto il buon gusto di non creare alcun nuovo personaggio per il folto cast di comprimari pur operando su ognuno di loro (Strange a parte: ci arriviamo dopo) significative variazioni caratteriali e fisiche. L’Antico si è così trasformato da una sorta di monaco tibetano a un essere androgino di origini celtiche (la parte è stata scritta su misura per Tilda Swinton, già spesse volte a suo agio con pratiche gender bender), il “servo” Wong (Benedict Wong, il Khublai Khan del Marco Polo Netflix) in un più politicamente corretto guardiano della biblioteca mistica di Kamar-Taj, il personaggio minore Kaecilius (Mads Mikkelsen) in un perfetto “araldo” di distruzione del potente Dormammu, a sua volta qui liberato dalle sue caratteristiche antropomorfe e raffigurato come una sorta di smisurata entità cosmica (sulla falsariga di Ego il Pianeta Vivente, villain che i lettori storici di Il mitico Thor della Corno ricorderanno bene…). Perfino il personaggio di Rachel McAdams, la dottoressa di pronto soccorso innamorata di Strange e destinata a diventare il suo legame con il mondo reale, ha il nome (Christine Palmer) di una delle incarnazioni della scultissima Night Nurse, eroina sui generis creata nel 1972 da una Marvel che tentava di aprire il suo parco testate al pubblico femminile. E la nemesi storica di Strange, il barone Mordo (qui mutato di razza: è Chiwetel Ejiofor), è momentaneamente solo un altro allievo dell’Antico: qui alleato cruciale per consentire a Strange di impedire a Dormammu di mangiarsi il nostro pianeta, ma (se avrete l’accortezza di non perdere la seconda sequenza nascosta, quella che potete vedere solo dopo i come sempre interminabili titoli di coda) destinato a manifestare a breve sotto altre e più canoniche forme la sua natura di villain. Variazioni che qualcuno ha già iniziato a mettere in discussione ma che risultano a conti fatti non influire sul risultato finale. Anche perché il film è letteralmente dominato da Benedict Cumberbatch (eccoci) nel ruolo del buon dottore; e il poliedrico attore, che ha sinora diviso equamente la sua carriera tra teatro ad alto livello (è considerato uno dei maggiori interpreti shakespeariani “moderni”), televisione con una marcia in più (l’acclamata serie Sherlock) e cinema commerciale di caratura quasi sempre superiore (tra gli altri, War Horse, Star Trek – Into Darkness, 12 anni schiavo, The Imitation Game e… Zoolander 2) è in scena praticamente dalla prima all’ultima sequenza, e ha saputo trovare una quantità di registri (nonché una invidiabile fisicità) perfino imbarazzanti per un “normale” comic movie. Solo che, appunto, di “normale” Doctor Strange ha ben poco: non tanto perché la maggior parte delle sue impattanti sequenze d’azione corre sul filo davvero “magico” e incantatore di una sensibilità digital-allucinogena con pochissimi precedenti nell’ambito di riferimento (e la lezione sui colori e la profondità del capolavoro di James Gunn Guardiani della Galassia, tanto per giocare in casa, è stata straordinariamente ben assimilata: fate in modo di vederlo in 3D, se non addirittura in Imax, ché per una volta sono soldi ben spesi), quanto perché raramente nell’ambito del cinema-fumetto si è inseguita con tale pervicacia e con simili risultati un’idea così libera di visionarietà e una filosofia così cristallina e radicale di abbandono della razionalità: caratteristiche che qualsiasi film tratto dai comics dovrebbe avere e che invece troppo spesso mancano o, peggio, vengono soverchiate e sepolte dai dettami del marketing, del merchandising (come per esempio nei quasi irricevibili Avengers – Age of Ultron e Captain America – Civil War, tanto per giocare nuovamente in casa, ma in opposizione di segno) e dallo spregio per i più elementari diritti civili (intesi alla lettera come libertà e prerogative dell’intelligenza) dello spettatore.