Va tutto bene – Alles ist gut – per Janne, la protagonista di questa opera prima della tedesca Eva Trobisch convocata tra i Cineasti del Presente di Locarno 71. Tutto è in ordine nella sua vita da giovane donna che sta costruendo le sue certezze. L’incipit è magistrale, un esempio di scrittura da tenere a mente, nonostante la giovane età di questa regista berlinese con studi di cinema prima a Monaco e poi a Londra, dove ha finalizzato il progetto di questo suo esordio: in una successione rapida e incisiva di piccole scene Eva Trobisch traccia con precisione le coordinate della vita di Janne, la sua protagonista, ragazza solida in se stessa ma sospesa tra le troppe insicurezze delle persone che la circondano. La sua esistenza è il quadro di una serenità che si costruisce sullo sforzo di far andare bene le cose, agire e reagire nella norma del quotidiano lavorio della volontà. In realtà da qualche parte, in quella esistenza, c’è un danno, un colpo inferto alla sua stabilità senza che lei abbia perso l’equilibrio: al culmine di una serata alticcia, Janne è infatti finita tra le braccia di un amico che vuole troppo e alla fine se lo prende, come fosse un gioco di ruolo alle cui regole violente bisogna stare. La forza di Janne le permette di rimanere in piedi, nonostante l’occhio nero e l’orgoglio un po’ ferito, lasciando il docile amico alfa scornato col suo senso di colpa. Janne del resto ha da badare alla sua vita: un nuovo lavoro e un fidanzato dolce ma tutto sommato prevaricatore, che la vorrebbe più sottomessa di quel che crede e che infatti non accetta che lei stia mandando all’aria i loro progetti.
È così che la tensione cresce, si spinge nelle maglie quotidiane di una femminilità che è messa sotto assedio da una violenza agita più sullo spirito che sul corpo: c’è il trauma ma non c’è la ferita nella storia di Janne, che procede scavalcando il dolore, sino a quando la somma degli eventi non la lascia sola con il peso della sua volontà messa alla prova. Il film insiste con lucidità sulla definizione di un personaggio che rivendica se stesso, tenendolo alla larga dai luoghi comuni di una femminilità da difendere a forza di hashtag. Eva Trobisch, in linea con la sapienza incredibile di questa nuova generazione di registi tedeschi, trova l’equilibrio del suo film sulla qualità narrativa delle relazioni in atto, facendo funzionare soprattutto il gioco del rapporto tra la personalità dell’individuo e la sua collocazione sulla scena sociale. Lo spostamento di senso tra la rimozione del trauma e la sua razionalizzazione è la trascrizione precisa di una dinamica che produce l’accumulo di sofferenza su cui si sedimenta l’apparente normalità del vivere sociale contemporaneo e che si traduce in indifferenza. E la Trobisch restituisce tutto questo con un controllo del dettaglio che ha del sorprendente per un’esordiente come lei. C’è da tenerla d’occhio, questa regista, come del resto l’intera generazione cui appartiene.