La solitudine del Presidente: La grazia di Paolo Sorrentino apre Venezia82

La materia è più o meno sempre quella: la codificazione del cinema di Paolo Sorrentino non ammette deroghe, si lavora comunque sulle coordinate del potere e La grazia (con cui si apre Venezia82) non fa eccezione. Siamo sempre immersi in uno dei mondi sorrentiniani, in cui la contrapposizione di forze equilibra le dinamiche nelle quali galleggiano le esistenze di figure languidamente dominanti, disperse tra la loro solitudine e il marasma di personaggi che le circonda… Toni Servillo entra puntualmente in campo come una garanzia di questa scena immota del cinema di Sorrentino: La grazia si incarna in lui tanto quanto in tutti i film del regista, col quale del resto c’è stato uno scambio di energie, un travaso di determinazioni semantiche mica da poco. Questa volta il suo passo determinato e solitario nei corridoi del potere risuona nelle stanze del Quirinale: siamo in presenza del Presidente della Repubblica Italiana, il suo nome è Mariano De Sanctis ed è una sorta di jam session tra Cossiga, Scalfaro e Mattarella…

 

 
Ha un passato democristiano e tanto basta: questo gli offre la qualità squisitamente sorrentiniana dell’esitazione, dell’attesa, della sospensione. Poi è un giurista, dunque un cultore delle norme, cosa che garantisce la decisione di non decidere che assume puntualmente, soprattutto ora che è alla fine del suo mandato. La figlia, Dorotea (Anna Ferzetti), che vive con lui e lo affianca nei suoi impegni istituzionali, gli rimprovera soprattutto il traccheggiare sulla firma di una legge sull’eutanasia che gli procura non poco tormento. Ma ci sono altri tre dubbi che segnano le ultime giornate del Presidente: due grazie da firmare, una in favore di una giovane donna che ha ucciso il marito violento e l’altra di un anziano professore che ha ammazzato la moglie malata di Alzheimer; e poi, sul piano strettamente personale, il dubbio sull’identità dell’uomo con il quale l’amatissima e defunta moglie Aurora l’ha tradito una sola volta. Sappiamo bene, del resto, che il dubbio è la forma di coscienza interiore che Sorrentino attribuisce ai suoi eroi assediati nella solitudine del potere: visione malinconica di un mondo decadente e astratto, di cui ormai conosciamo a perfezione le coordinate. Tutto il resto è un florilegio di schemi comportamentali sorrentiniani: piani d’attesa sulla perplessità esistenziale di un personaggio che illumina i mondi che gravitano attorno a lui partendo dall’ombra di un sentimento superfluo dell’esistere, dal dissenso col potere che indossa come un abito da cerimonia fuori tempo.

 

 
E poi ci sono le svirgolate sorrentiniane classiche, trovate sceniche e caratteriali che stanno tra il papa africano con dreadlocks e Vespa e l’imprevedibile passione del serioso Presidente per il rapper Guè Pequeno (guest star del film), passando per il personaggio di Coco Valori interpretato da Milvia Marigliano, critica d’arte senza mezzi termini che colorisce le cene presidenziali e custodisce il segreto dell’amica Aurora nonostante le ossessive insistenze del marito. La grazia è un film che sa essere tenero e formale come il suo protagonista, illuminato in controluce dal dialogo implicito che il regista mette in campo tra concetti chiave come perdono, tolleranza, valore della colpa e della comprensione. Slittando dal piano personale a quello istituzionale, il Presidente di Sorrentino lascia scorrere la problematicità del rapporto tra responsabilità individuale e giustizia condivisa, intrecciando in maniera semplice (ma non semplicistica) concetti filosofici che dialogano col nostro tempo. Questo è un film sull’amore, dice Sorrentino, e gli va riconosciuto che, dietro gli schemi espressivi tipici del suo cinema, La grazia mostra un autore più limpido e sereno, in linea con la maturità di questa sua stagione.