Le vite sospese di Banat

b34Con 37°4 S Adriano Valerio aveva raccontato, in poco più di dieci minuti, senza ricorrere a dialoghi, ma solo con la voce narrante del personaggio maschile, l’amicizia, l’amore, il rapporto conflittuale con la propria terra (l’isola di Tristan da Cunha), la necessità di rimanere e il desiderio di partire di due adolescenti. Esprimendo queste complesse relazioni con uno sguardo sobrio, essenziale, con immagini costruite per sottrazione dove forte era l’affiorare di un senso di straniamento e spaesamento. Due stati d’animo che il trentottenne regista rivendica come linee fondamentali del suo lavoro, acquistando rilevante funzione teorica oltre che ponendosi come strumento del disorientamento dei personaggi. Da 37°4 S a Banat- Il viaggio il passaggio è naturale, avviene quasi senza stacco, come il fluido continuare di un discorso con cui Valerio sta costruendo la sua filmografia. 37°4 S si può anche considerare come una sorta di prologo di Banat che, nella durata del lungometraggio, ri-colloca quegli elementi, li espande in una narrazione più ampia ma, al tempo stesso, rigorosamente tesa a suggerire piuttosto che a spiegare, a creare ellissi spazio-temporali (con l’uso di un pregevole montaggio alternato che coinvolge anche i piani dei dialoghi). In tal modo, le vite già sospese dei protagonisti Ivo e Clara, e quelle delle altre figure incontrate in Italia e in Romania, si sospendono ancor più. Si tratta di andare oltre, di mettersi in viaggio in cerca di un altrove, mossi dall’insoddisfazione, da una situazione economica che è solo il pre-testo per partire, generato soprattutto da un disequilibrio interiore, dal non riconoscersi, prima di tutto, nei codici e nelle istituzioni sociali esistenti.

banat 2015

 

Valerio costruisce un’opera geometrica e sensuale, mantenendo sempre quella “giusta distanza” che permette di aderire ai personaggi e agli ambienti con discrezione, con una scrittura prosciugata, eppure senza mai risultare estraneo alle situazioni descritte. Perché Banat non disegna solo la solitudine e i tentativi di ricominciare nuovi capitoli lavorativi e sentimentali da parte dell’agronomo Ivo e della restauratrice Clara, ma si sofferma con altrettanta puntualità sui luoghi da loro temporaneamente abitati, anch’essi carichi di memorie o in attesa di riaverne. Si pensi alla scena iniziale nell’appartamento di Bari, che non appartiene più a Ivo, in partenza per la Romania, e non ancora a Clara. Stanze vuote, piene solo di scatole, colte nel mezzo di un doppio trasloco. E si pensi alla casa nella campagna di Banat, nuova sistemazione di Ivo, con i suoi oggetti che documentano un passato per nulla archiviato (testimoniato anche da Ion, proprietario della tenuta agricola, che un tempo fu portiere della Steaua Bucaresicst, perseguitato per un suo gesto di non sottomissione al regime). Quello di Adriano Valerio è un cinema che ha la capacità di osservare, rendendoli un unico corpo, ponendoli in stretta relazione, personaggi, edifici, natura. Di mettere dei corpi in posa (come già accadeva in 37°4 S), ritagliandoli o sospendendoli nelle inquadrature come fossero delle figurine, non senza talvolta una certa dose di umorismo surreale (Valerio ha tra i suoi riferimenti Aki Kaurismäki e l’islandese Dagur Kári). Oppure di liberarli in tutta la loro fisicità mentre cantano o ascoltano una canzone. Perché le canzoni dicono più di qualsiasi discorso sui sentimenti e Valerio le inserisce come meglio non potrebbe, con funzione diegetica: Se t’amo t’amo di Rosanna Fratello – con il volto radioso di Clara, in sovrimpressione con quello della cantante nel video, guardata da Ivo e dall’amico romeno Christian – e quella francese sui titoli di coda. Canzoni che ipotizzano un futuro per i due trentenni italiani. Futuro che le immagini lasciano sospeso, abbandonando Ivo e Clara sulle dune di fronte a un mare fuori stagione. In un finale che parla con quello, indimenticabile, de Gli occhi stanchi di Corso Salani.