L’intima verità del racconto in 17 anni (e come uscirne vivi)

Un’adolescente con un improbabile e coloratissimo giubbotto irrompe in una classe dove il suo professore di storia sta rilassandosi in pausa pranzo. Lo sommerge di parole, a cento all’ora, minacciando il suicidio e cercando, goffamente, una spalla a cui appoggiarsi. Il professore però non sta al gioco ele ribatte parola su parola, con voce calma e ostentatamente pacata, mostrando una massiccia dose di crudele sarcasmo. Inizia così, con uno sbilenco ritmo da screwballcomedy, 17 anni (e come uscirne vivi) – traduzione fantasiosa e un po’ demente dell’originale The Edge of Seventeen, “il bordo” (o “la fine”, per dirla con il cantautore Francesco Motta) “dei diciassette anni” – lo scintillante esordio di Kelly Fremon Craig che riporta alla mente gli anni ottanta, epoca d’oro del teen movie americano, senza cadere nella pura rievocazione citazionista anzi, con lucidità, giocando su similitudini e differenze di mondi adolescenziali in perenne cambiamento. Nadine Franklin è una studentessa come tante: non particolarmente popolare, non appariscente, tendenzialmente asociale, dalla lingua rapida e feroce, insicura e fragile com’è naturale essere alla sua età. La sua infanzia è stata segnata dalla morte improvvisa dell’adorato padre, unica fonte di solidità, e dal conflitto neanche troppo velato con la madre sentimentalmente instabile e il fratello narcisista. Una sola amica, lungo tutta la vita, che di colpo, quasi casualmente, finisce per tradirla.

Il meccanismo narrativo di 17 anni (e come uscirne vivi) è semplice: una variazione sul tema dei college movies di John Hughes – da Sixteen Candles a Bella in rosa fino a The Breakfast Club – che, come quei film, riesce a tratteggiare un ritratto di adolescente messa sotto scacco dalle paturnie della crescita, dai rapporti dolorosi con i coetanei, dalle prime vibrazioni sessuali, dallo scontro sempre sul punto di esplodere con un mondo adulto apparentemente impassibile e distratto. La ricetta potrebbe sembrare semplicissima: un ritmo (soprattutto verbale) forsennato, un ritratto credibile di una outsider calata in un contesto vissuto come ostile, il tradimento di amicizie e amori che prelude però a una crescita, seppur dolorosa, capace di donare consapevolezza e, si spera, strumenti per calarsi con coraggio nel mondo. Ciò che non è invece semplice, e che rende 17 anni (e come uscirne vivi) un piccolo trattato miracoloso su come affrontare tematiche scivolose con strumenti consoni e coerenti, è la fluidità di scrittura, il riuscito equilibrio che ritma l’alternanza di momenti comici e drammatici, la consapevole cura con cui si tratta quel tesoro fragile e delicato che è il racconto delle quotidiane sofferenze di una giovane donna. Rispetto ai film docilmente ribelli di Hughes, il mondo adulto appare qui più presente (nel bene e nel male) anche se sempre sfumato e inaffidabile, fino a ipotizzare la possibilità di un reale momento di incontro solidale; ogni riflessione sull’adolescenza resta però un tuffo in un mare malinconico e sofferto, che affonda dolori apparentemente insanabili in una logorrea autoreferenziale che trasuda brillantezza e prelude a una dolente comprensione di sé. È come se sul “canone” hughesianosi fossero innestati dei rami dei Freaks and Geeks di Judd Apatow, in cui la supremazia assoluta dei sentimenti è attenuata da una smaliziata e scanzonata ironia. Nei recenti tentativi di ridare vita al genere, solamente Easy Girl di Will Gluck (e della sua magnifica protagonista Emma Stone) era riuscito a infondere lo stesso senso di urgente necessità di racconto e il puro piacere della commedia che sin dalle prime scene colorano 17 anni (e come uscirne vivi) di tonalità conosciute ma imprevedibili. A regalare al film la sua irresistibile vitalità ci pensa Hailee Steinfeld, una Molly Ringwald meno bambola e più pestifera, già bambina prodigio nel west de Il Grinta dei fratelli Coen, che qui incarna le titaniche incertezze della nevrotica Nadine. I duetti con il suo insegnante (un Woody Harrelson deliziosamente controllato, che cresce i suoi studenti proiettando Alba di gloria di John Ford) sono piccoli capolavori di tempistica, la regia di Fremon Craig ha una freschezza non convenzionale, la scelta di abiti e musiche sfiora la furberia senza mai cedervi (e senza neanche arrendersi a un acritico gusto vintage). In anni in cui il pubblico giovanile sembra rivolgersi solamente ai blockbuster seriali, riempie gli occhi e il cuore la visione di un coming of age all’antica che punta sulla brillantezza della scrittura e sulla trasparente, intima verità del racconto per costruire un trattato sulle difficoltà dell’adolescenza finalmente privo di ogni traccia di paternalismo e ipocrisia. Perché se è vero, come dice il personaggio di Ally Sheedy in The Breakfast Club, che «quando cresci, il tuo cuore muore», è anche bello pensare che nel sorriso di una Nadine Franklin qualunque si possa immaginare un futuro un po’ meno infelice, almeno per lei.