Proviamo a fare un gioco drammaturgico. 12 uomini arrabbiati in una stanza. Sono una giuria che deve condannare o assolvere una persona accusata di omicidio. Undici non hanno dubbi sulla colpevolezza, uno sì. Ribaltiamo lo schema. 12 tra uomini e donne in una stanza. Sono una giuria che deve condannare o assolvere una persona accusata di omicidio. Dieci non hanno dubbi sulla colpevolezza, uno forse anche ma è un ex detective aperto alla necessità di prove. E poi c’è il dodicesimo, il giurato numero 2 per restare alla norma che obbliga tutti i convenuti all’anonimato, il quale non ha alcun dubbio, è anzi certissimo che l’imputato sia innocente. Perché il colpevole è lui. Trasportate tutto nelle mani di Clint Eastwood, già autore di drammi procedurali con dilemmi morali di vario tipo e in certi casi non dissimili, ovvero True Crime (Fino a prova contraria, 1999), Changeling (2008), Sully (2016, non si tratta di un processo in tribunale ma in una commissione le cui decisioni hanno però valore legale) e soprattutto Midnight in the Garden of Good and Evil (Mezzanotte nel giardino del bene e del male, 1997) forse il più doloroso flop di Clint ma anche una delle sue migliori regie. Mezzanotte e Giurato numero 2 sono entrambi ambientati a Savannah, in Georgia, il secondo è meno “misterico” del primo, dove il cartesiano Eastwood si confronta addirittura con la magia nera e il voodoo, tuttavia ha la stessa luce livida anche nell’oscurità e la stessa sensazione di umidità e confusione percettiva (è la terza volta che Clint lavora con il direttore della fotografia Yves Bélanger, bravissimo).
Nessuno sa bene cosa ha visto, cosa ha sentito, i punti di vista, da cui le ricostruzioni in tribunale, sono parziali e mai definitivi. Il film ha un difetto narrativo – la sceneggiatura è di Jonathan Abrams – poca cosa sia chiaro, ma è improbabile che un avvocato difensore bravo come sembra essere quello, pur d’ufficio, dell’imputato, non abbia pensato lui per primo a una indagine parallela tipo quella condotta dal giurato poliziotto J.K. Simmons. Dopodiché Clint costruisce il dramma non tanto sul processo, quasi inesistente, e neanche, come Sidney Lumet (12 Angry Men, 1957) e Bill Friedkin (12 Angry Men, 1997), sulla dialettica nella stanza chiusa delle deliberazioni. Accogliamo l’intuizione di Roberto Silvestri (FilmTv 47/2024) che a questo giro non sia più il bilanciamento tra legge e giustizia, troppo spesso non coincidenti non per colpa del sistema istituzionale o giuridico («imperfetto, ma senza alternative»: il concetto viene ribadito due volte nel film, e vale anche per la democrazia) ma per i difetti o le manchevolezze umane, quando non per la cieca burocrazia o tecnocrazia (come in Sully). Il confronto a carte scoperte tra la procuratrice Toni Collette (tra le migliori attrici della sua generazione, senza se e senza ma, lo sosteniamo da Muriel’s Wedding) e il protagonista Nicholas Hoult avviene su una panchina davanti al palazzo di giustizia (dunque “esterni”).
La sequenza si conclude con un carrello della macchina da presa all’indietro e a salire che svela come tutto il dialogo si sia svolto sotto la statua di Themis, la dea della giustizia che tiene in mano la bilancia dell’equità. Legge da una parte e giustizia dall’altra, oppure bene e male, ma manca sempre un elemento, suggerito appunto da Silvestri. La verità. Che come dice Vasco, è fatale. Infatti inchioderebbe un bravo ragazzo ed eviterebbe il carcere a vita a un bruto conclamato, però, nella fattispecie, innocente. Il finale è strepitoso perché costringe lo spettatore a decidere se sia aperto o chiuso. Clint, in questo film dalla messa in scena come al solito essenziale, che significa perfetta, e dalla sbalorditiva recitazione di tutti (Hoult è sempre stato sottovalutato, me lo ricordo schernito in Equals dove era invece già ottimo, e vedrete in The Order dove fa il suprematista bianco fascista e assassino ma empatico padre di famiglia, un ruolo forse speculare a questo) ci “tira dentro” perché il dilemma del film, alla fine, riguarda tutti noi.