Noi Balliamo con l’esercito – L’età dell’innocenza di una nazione e il disincanto in Youth di Fenx Xiaogang

Difficile dire quanto ci possa essere di autobiografico per Feng Xiaogang in Youth il suo ultimo film, anche perché lo è il romanzo da cui è tratto, You Touched Me di Yan Geling, autrice anche della sceneggiatura. Tra lei e il regista c’è una differenza d’età d’un solo anno ed entrambi da ragazzi si erano arruolati nell’Esercito Popolare di Liberazione, per entrare in quei gruppi di ballo le cui coreografie, insieme alle gigantografie di Mao, erano e restano l’icona stessa, in tutto il mondo, della Rivoluzione Culturale cinese. Ed è in questi balletti di propaganda, che accompagnavano l’Esercito anche in guerra, che il regista, concluso il Liceo, aveva fatto le sue prime esperienze teatrali, come scenografo. Figlio lui di un’infermiera, nel film lo diventerà invece la protagonista, ma sul fronte di guerra sinovietnamita. Quello stesso fronte che la scrittrice, arruolatasi nei corpi di ballo dell’Esercito sin dall’età di 12 anni, ha vissuto in prima persona, iniziando a scrivere come cronista di guerra, dopo aver per otto anni ballato per l’esercito. Un intreccio davvero poderoso di autobiografismo, che in realtà risulta subito corale, generazionale e nazionale. Siamo nei primi anni settanta e la Rivoluzione Culturale è già alle spalle, ma ha lasciato un segno indelebile, avendo fatto dei giovani la sua arma principale, contro gli anziani quadri di Partito, gli insegnanti, gli intellettuali e chiunque si opponesse a Mao. Non a caso il ’68 sarà fortemente contaminato da questa immagine del maoismo. Diventare in quanto giovani l’immagine stessa della nazione, tutti in divisa e danzando all’unisono, mentre davvero si vivono gli anni della propria giovinezza, non può che produrre uno straordinario sentimento in chi lo ha vissuto. Eppure quel sentimento si è trasformato, nella Cina di oggi, in qualcosa di sovra personale, che riguarda anche chi in quegli anni non era ancora nato e che lo assorbe attraverso l’uso che ne fa il merchandising, alla pari delle magliette del “Che” in occidente.

 

Youth mette in luce questo sentimento in un grande componimento elegiaco, condotto da una voce narrante che non è quasi mai in prima persona, perché viene da uno dei tanti personaggi collaterali, Xiao Suizi, (Elane Zhong, qui come Zhong Chuxi) e che potremmo di certo identificare con la stessa scrittrice. Una specie d’imbuto rovesciato, che dal dettaglio sui due protagonisti si apre progressivamente, e senza sosta, a raccontare un’intera compagnia di ballo. Sarà lei ad assumere il ruolo del coro tragico, alla fine del film chiedendoci perdono del non farci vedere i loro “volti invecchiati, lo schermo – dirà – conserva le immagini della nostra giovinezza”.  Ed è la Cina intera a conservare l’immagine della propria giovinezza, così come ogni persona conserva di se, nella sua mente, l’immagine giovanile. Appena un anno dopo il capolavoro I Am Not Madame Bovary (un titolo internazionale sbagliato e che induce all’equivoco), Xiaogang continua la sua opera di ricucitura storica, in una Cina che consuma centinaia di film l’anno, per lo più di genere e tutti con uno sguardo al futuro, anche quando ci raccontano il presente come suo preambolo, o quando usano il genere fantasy per una mitizzazione identitaria e astorica. Xiaogang al contrario usa il “passato prossimo” per indagare l’identità della Cina di oggi. Mette in scena lo stesso Partito Comunista Cinese, quello che oggi gestisce con estremo controllo la modernizzazione capitalistica, scegliendo gli anni del maoismo e arrivando così in modo indiretto alla contemporaneità, dentro una sua misura già storicizzata. In entrambi i film, lo specchio della contemporaneità, di questa realtà ormai “adulta”, arriva solo in rapidi riflessi, rapidi passaggi finali che nulla possono levare alla memoria, e al ricordo. Quelli restano fissati alla gioventù, e Youth ci consegna l’unica immagine dell’età dell’innocenza che anche la Cina neocapitalista può avere: quella della gioventù militarizzata maoista, seppure riletta, dalle nuove generazioni, in chiave pop e consumistica.

 

Di questa gioventù maoista solo due possono essere gli eroi, eletti a protagonisti del film: un figlio del popolo dall’animo nobile e rivoluzionario (Huang Xuan, un attore molto popolare in Cina per le serie tv) e una contadina ingenua (l’esordiente Miao Miao). Questa fedele presa in prestito dei caratteri del realismo socialista è sapientemente nascosta nei modi della commedia romantica, con il principe azzurro e Cenerentola in chiave di Sol, dell’avvenire. Il gioco con questo repertorio è nella trama stessa del film. Il giovane protagonista, Liu Feng, viene chiamato dai suoi stessi compagni di ballo “Léi Fēng vivente” perché ricorda già nel nome questo mitico soldato, morto nel 1962 a 22 anni (Youth, per l’appunto), eletto a simbolo dal maoismo  e celebrato proprio nei balli e nei canti dell’esercito. Ancora oggi la sua icona appare sulle T-shirt, riempie i negozi di gadget, si aprono musei, si portano i turisti sulla tomba e si creano video giochi con la sua immagine. Liu Feng non si limita a impersonarlo nei balli e tenersi l’appellativo che a lui lo associa, ma vi modella sopra la sua personalità, sempre al servizio del gruppo e pronto a ogni tipo di mansione, senza mai risparmiarsi. Sino a finire realmente in guerra e doversi anche lì sacrificare per gli altri, perdendo un braccio. La svolta capitalista lo renderà un emarginato, senza più nemmeno il rispetto e gli onori dovuti ad un eroe popolare. In un finale appena tratteggiato dalla voce narrante, Liu Feng ritroverà la giovane contadina, He-Xiaoping. Proprio lei che nonostante il talento era stata cacciata via dal gruppo di danza, in realtà sempre isolata e schernita dalle altre compagne di danza a causa delle sue origini sociali, essendo le altre o figlie di funzionari statali (Shuwen) o ragazze di origini urbane e di buona famiglia (Ding Ding, proveniente da Shanghai). Sono due sconfitti che dovranno costruirsi un futuro che è già vecchiaia e che per pudore non vuole essere mostrato. Nessuna nostalgia apologetica del maoismo. Al contrario la distanza critica fa mettere a fuoco l’unico oggetto possibile di un’autentica nostalgia: la doppia illusione di un mondo coeso e protetto, e quella di un’età fuori dal tempo, qual è l’adolescenza, entrambe fondate sulla gabbia dorata di una società interamente militarizzata. Questi ragazzi sembrano partecipare ad un grande gioco. Vivono protetti dal mondo esterno ed il loro è un privilegio riservato infatti o ai figli dei funzionari o davvero a chi ha talento. Fuori da qual mondo, si porta la stessa divisa, ma diversamente dalle loro, sempre lustrate a nuovo, sono divise infangate e sporche, provate dalle lunghe ed estenuanti esercitazioni. I ragazzi e le ragazze di buona famiglia della compagnia di ballo a mala pena riescono a sopportare qualche vescica sotto i piedi. Xiaogang sceglie sempre i toni ironici e lievi della commedia, e non sottolinea mai i contenuti politici e sociali. Come quei ragazzi anche noi partecipiamo solo delle loro vicende private e infantili. Tutto quello che accade fuori sarà annunciato solo da rapidi passaggi visivi, di cui prendiamo nota senza partecipare. La fine del maoismo viene riassunto in uno stacco improvviso con un drappo nero che cala sulla gigantografia di Mao Dse Tung. Il passaggio al neocapitalismo con il volto di un soldato che fa un passo avanti sullo sfondo di un grande cartellone rosso, ma è il cartellone della Coca-Cola.

Il film si apre con He-Xiaoping che vuole imparare da Liu Feng a fare bene il saluto militare, e che vuole a tutti i costi inviare una foto al padre di lei, in divisa. Il furto di questa a una compagna di camerata darà avvio all’intera vicenda, diventando il pretesto per il suo isolamento dal gruppo. Una divisa che è orgoglio e riscatto, sia per la figlia sia per il padre, nonostante il dolore di entrambi per la loro separazione, essendo il padre un dissidente inviato nei campi di rieducazione. Fatto increscioso che la ragazza nasconde alle compagne, inutilmente. A dividerla da loro resta netto il pregiudizio di classe, nella cornice adolescenziale della scoperta del corpo, della sensualità, del sesso, dell’amore (Fiore che sboccia, possiamo così provare a tradurre il titolo originale del film Fang Hua). He-Xiaoping pur essendo una ballerina eccelsa sarà rifiutata dai suoi compagni di ballo maschili perché puzza (e lei, ingenua, non si risparmierà mai una doccia e penserà invece di “sudare troppo”). L’eroe proletario Liu Feng oserà invece innamorarsi della raffinata Ding Ding, in rivalità con l’altra eletta Shuwen per l’amore di un giovane figlio di alti funzionari. Il gruppo non perdonerà nemmeno all’eroe di aver osato tanto, ma anche in questo caso le ragioni manifeste devono essere altre. Interessante notare che dopo la morte di Mao, da una fisicità marziale, con l’era di Deng, entri in gioco una sensualità più voluttuosa. La rivoluzione culturale non era stata sessuale, e questa arriva con l’Occidente consumista, con gli abiti provenienti da Hong Kong nascosti in camerino, ma soprattutto con la musica proibita, il “mandopop” di Teresa Teng, cantante della nemica Taiwan. Oggi, vent’anni dopo la sua morte, è invece oggetto di culto e non solo in Cina, ma in tutto l’estremo oriente, dal Vietnam al Giappone. A lei Shanghai vuole dedicare un museo, e nella vicina Guilim sorge già un Parco artistico. Per i cinesi, Teresa Yang è quella che cantò a Parigi in difesa dei ragazzi di Tiannammen, nel 1989. Sarà con la scoperta delle sue canzoni che il film ci accompagnerà a veder uscire dalla dimensione militare i ragazzi del ballo. Sarà una sua canzone a far compiere a Liu Feng una pasticciata confessione d’amore, un abbraccio tanto confuso quanto irricevibile, con tanto di rapporto del Commissario politico. S’incrina così quello che sembrava eterno: il sentimento cameratesco, l’illusione di appartenere a un unico corpo.

A interrompere bruscamente questa illusione sarà l’arruolamento di alcuni di loro, ovviamente di Liu Feng ed He-Xiaoping, esclusi dalla compagnia di ballo. La Cina è entrata in guerra con il Vietnam comunista e il film ha una deviazione sorprendentemente brutale. Siamo nel 1979 ed è passato un decennio. Dopo arriveremo sino agli anni ’90, ma solo con rapidi balzi, perché quello che conta è l’età dell’innocenza. E l’innocenza sarà persa in guerra. Definito spesso lo Steven Spielberg d’oriente, Feng Xiaogang qui sicuramente ne dà prova, con i proiettili che tagliano l’aria come quelli del Soldato Rayn. Non si tratta solo di una lunga sequenza. Qui il film cambia registro ed è come se si frantumasse lui stesso, dopo un lungo capitolo tra battaglie feroci nella giungla e corpi dilaniati nelle tende mediche. Liu Feng finirà mutilato e He-Xiaoping perderà non solo la voglia di ballare, ma persino la ragione. Insieme a loro, della compagnia di ballo, c’è solo la testimone narrante del film, quella Xiao Suizi che, come abbiamo detto, è l’alter ego della scrittrice, reale testimone di quella guerra.
È singolare che prima di questo film i suoi romanzi fossero stati portati sullo schermo proprio da quel Zhang Yimou che con Feng Xiaogang condivide un percorso l’uno inverso all’altro. Il primo conclamato regista di fama internazionale, con un percorso che parte dalla autorialità, con i grandi festival glamour (Sorgo Rosso e Lanterne Rosse) e giunge oggi al prodotto commerciale del kolossal di coproduzione sinoamericana, The Great Wall. Il secondo, al contrario, è stato per vent’anni il Vanzina cinese (sua l’invenzione del “sinocinepanettone”, hesui-pian) e oggi paladino di un cinema indipendente che osa fare i conti senza reticenze con la rivoluzione maoista e l’era attuale di Xi.

Il paragone con Spielberg nasce da alcuni film (Assembly, Back to 1942) che avevano fatto uscire Xiaogang dai confini tutti nazionali di una commedia non esportabile all’estero. In questi film si usano toni epici e meanstream per un pubblico “globalizzato”, ma è evidente come oggi Xiaogang stia virando verso uno stile molto più personale e che fa tesoro proprio dell’esperienza “bassa” nel cinema leggero e di genere. Un’esperienza che dona a Xiaogang un pubblico enorme, nonostante i suoi film non possano dirsi oggi commerciali. L’esito paradossale è che da una parte The Great Wall di Zhang Yimou è stato un fiasco davvero Kolossale, con recensioni così cattive da far intervenire il Partito Comunista Cinese nel redarguire le testate giornalistiche perché non danneggiassero il mercato. Invece, dall’altra parte, il film di Xiaogang ha conquistato il pubblico nonostante una storia cupa e una durata di due oltre due e dieci. Il flop in Cina di The Great Wall ha messo in crisi un modello di produzione per l’esportazione, mentre The Youth avrebbe dovuto aprire (se non fosse intervenuta la censura) il primo Festival di cinema indipendente cinese, sul modello americano del Sundance di Robert Redford. Il regista che ha ideato e costruito la manifestazione, nella città di Pingyao, in collaborazione con Marco Müller, è Jia Zhang-ke, ammiratore di Ang Lee, a cui dedica la manifestazione intitolata Pingyao Crouching Tiger Hidden Dragon International Film Festival (PYIFF), come La Tigre e il Dragone di Lee. Jia Zhang-ke è spesso sotto le forbici della censura per i suoi lavori, ma è anche un regista affermato sulla scena internazionale e quest’anno il suo Ash is purest white è stato salutato a Cannes con grandi favori. Una cintura di protezione internazionale che non è servita. A impedire che Youth inaugurasse il Festival c’è stata la coincidenza con la data di apertura, a ottobre, del Congresso del Partito. Qualcuno ha supposto che fosse a causa delle scene sulla guerra sinovietnamita, ma quando il film è finalmente uscito nelle sale quelle scene sono rimaste, e il film è risultato comunque più corto di ben 12 minuti dalla versione presentata al Festival di Toronto, a settembre. Due mesi in cui era già iniziato il tour promozionale e il ritiro improvviso della pellicola ha ovviamente catalizzato l’attenzione della stampa, con Xiaogang sotto i riflettori a propagandare l’idea che “The young director’s of today should not be beaten back by difficulties and setbacks”[1] (il cinema dei giovani registi non deve conoscere battute d’arresto e trovare difficoltà).
Intanto, se il 2017 si è chiuso con questa lunga ombra sul 2018, la svolta è arrivata all’inizio dell’anno, con l’intera industria della produzione e della distribuzione di cinema e altri media messi sotto il diretto controllo del Dipartimento Centrale della Propaganda del Partito Comunista. Presto per poter dire cosa porterà questa riforma, ma il caso della mancata proiezione di Youth alla serata di apertura del Festival di Pingyao, carica questo film, e probabilmente continuerà a caricarlo in futuro, di ulteriori significati. Non può essere diversamente per un film che interroga la storia, anziché offrirla come spiegazione e darne una lettura univoca.

 

[1] Steven Lee Myers, A Film Festival tests the limits of independence in China, The New York Times, 3 novembre 2017