Piccole verità e fragili certezze in La fête est finie di Marie Garel Weiss, su ArteKino

Il sorriso finale tra le due protagoniste ridefinisce il tema del film d’esordio del 2017 di Marie Garel Weiss – presentato da ArteKino sulla sua piattaforma – il cui titolo La fête est finie, sembra contraddire il suo stesso svolgersi, costituendo, invece, la festa, quella della vita, che arriva dopo ogni tempesta. La fête est finie  consolida l’impressione già confermata di una cinematografia, quella francese, che non smette di sorprendere con la sua variegata produzione (anche quella più nascosta e sotterranea, come è il caso di questo film), evidenza che conferma, peraltro, una certa propensione dei giovani cineasti d’oltralpe ad un’attenzione rivolta non solo alla propria vita interiore, ma che sappia scavare nel quotidiano, in quelle pieghe segrete di una consueta normalità, per trovare la strada giusta per raccontare con una certa franchezza la sua complessità. Una narrazione che trova complicità in quella ricercata semplicità narrativa che sembra essere diventato un marchio preciso, ma anche il lascito di una tradizione che pesa sulle spalle di questi giovani autori. Il film di Garel Weiss, ad esempio, come verificato in altre occasioni, conduce, in prima battuta, proprio una profonda ricerca sui personaggi, che sanno essere non solo ombre di una proiezione, ma prototipi precisi di una condizione. Tutto ciò a fronte di un generale basso investimento economico messo a frutto con la volontà di offrire una prospettiva inconsueta di sicuro, ma mai banale, anche quando i temi siano già stati visitati dal cinema. Su queste pagine, d’altronde, è via via confermata la particolare vitalità del cinema francese che sa diventare protagonista, con una produzione minimale, ma anche cospicua, anche sulle piattaforme che sostituiscono attualmente la visione in sala.

 

 

La fête est finie corrisponde a queste caratteristiche, nonostante il suo tema sia quello più volte affrontato della tossicodipendenza. Ma la giovane regista sa trovare la chiave giusta per imbastire un racconto che, evitando ogni ideologizzazione, si ponga naturalmente come riflessione sull’oggi, anzi, verrebbe da dire, sul “sempre”, ma sicuramente come posteriore a tutto quel cinema che negli anni ’80 e ’90 (da Amore tossico a Noi i ragazzi dello zoo di Berlino per citare due titoli famosi) ha raccontato il contemporaneo della tossicodipendenza, ha raccontato la devianza, con intenzioni – tutte in buona fede –velatamente pedagogiche e di avvertimento. Là dove il cinema di quegli anni scrutava il dolore nel suo prodursi, assimilata la lezione è ora di ragionare sulla guarigione, sulla ricostruzione in nome di una nuova occasione e di un’altra possibilità. Il male del vivere non è più tema di indagine, è condizione acquisita, è patologia endemica. Sembra partire da questi assunti non detti il racconto di Marie Garel Weiss e nel suo film tutto questo è bene evidente ed è su questo che costruisce lo sguardo sulle due sue protagoniste. Uno sguardo partecipativo ma non conciliante, mai vittimistico. Cèleste e Sihem, per ragioni diverse, non sono delle sante e il rapporto che si istituisce con loro è empatico, ma anche duramente dialettico. Céleste e Sihem diventano amiche nel centro di recupero per tossicodipendenti del quale, loro malgrado, sono ospiti. Non hanno in grande considerazione le terapie di gruppo e la loro naturale ribellione le spinge fuori dal programma, ma anche dalla struttura. Il tentativo è quello di vivere insieme con l’intenzione di cambiare vita. Ma ancora il cammino è lungo perché si intraveda la luce nella piovosa serata che le farà ricongiungere.

 

 

La fête est finie come già detto, senza toni paternalistici intende operare su un differente piano rispetto alla conosciuta prospettiva con la quale solitamente ci si intende quando si parla di tossicodipendenza.  Non c’è paura nel film, ma c’è il disagio esistenziale, c’è, invece, un represso desiderio di ricerca di una possibilità, c’è quasi celato il desiderio di una normalità (fare la cassiera, comprare i regali, stringere amicizia). Divise tra questi desideri, ma stretti in una condizione di antagonismo costante, nel rifiuto vissuto all’interno delle famiglie, fino all’apice di quel rifiuto di sè stessi, quasi di quel corpo estraneo che diventa ingombro alla propria stessa esistenza. In questa condizione per Céleste e Sihem diventa ancora più faticosa la ricostruzione del presente, più faticoso il riconoscersi come soggetto meritevole di attenzione. Ma gli incontri tra ex tossicodipendenti e l’amicizia, sia pure burrascosa, che si instaura tra le due ragazze, reciproco sostegno e ancora di salvezza, diventano lenitivi per quelle ferite. Diventano nuova condizione dentro la quale sperimentare un armistizio con il mondo. È in questa tregua che Garel Weiss lascia le due ragazze, senza entusiastici ottimismi e senza pietismi, ma con il solo desiderio di raccontare il percorso che porta ad un’altra possibilità. Un particolare apprezzamento va alle due protagoniste Clémence Boisnard nel difficile ruolo di Céleste e Zita Hanrot, che già nel 2017 faceva intravedere le sue doti attoriali confermate nel successivo La via scolaire del 2019 nel quale domina con la sua presenza l’intero film. Un film tutto al femminile che in quella prospettiva di ricerca di normalità sa anche essere un’incursione in quell’amicizia femminile che sembra rifarsi a un cliché consumato: il bagno insieme, una complicità naturale, la condivisione della fortuna e della sfortuna, sapendo guardare con la necessaria attenzione alla giovane età delle due protagoniste. Garel Weiss ci consegna la sua voglia di guardare alla ricostruzione di un’autostima, il suo film che non ha nulla di enfatico, né di moralistico, sa lavorare su piccole verità che senza intenzioni consolatorie sanno però aiutare, che senza illudere troppo diventano fragili certezze.