Prigionieri per essere liberi: a Venezia82 No Other Choice, di Park Chan-wook

In origine fu il romanzo di Donald E.Westlake, The Ax, trasposto nel 2005 da Costa Gavras in Cacciatore di teste. Nei vent’anni successivi è diventato il progetto-ossessione di Park Chan-wook, ansioso di girarne una propria versione, che infine è diventata realtà (approdando anche in concorso a Venezia82) dopo un tentativo di ambientazione negli States. Siamo invece nella nativa Corea, dove Man-soo, lavoratore di un’industria della carta ha perso il lavoro e decide di uccidere i possibili pretendenti al posto per ottenere così un nuovo impiego. Una decisione maturata in solitudine, ma utile a difendere quel mestiere che gli ha garantito fortuna e solidità familiare, riverberando allo stesso modo i meccanismi dell’ossessione e della vendetta cari all’autore. Il quale, al solito, lavora sulla forma cinematografica come materia viva da plasmare a ogni passaggio, secondo una logica muscolare della messinscena: movimenti di macchina ampi e morbidi, presenza incisiva del reparto sonoro e una mobilità quasi slapstick dei suoi personaggi, a iniziare dall’insospettabile Lee Byung-hun nel ruolo del clownesco protagonista, che rovescia in questo modo la stolidità dell’indimenticabile poliziotto di I Saw the Devil di Kim Jee-woon.

 

 
Tanto enfatico è però l’incedere impresso all’opera dal suo autore, quando in realtà si rivela funzionale a nascondere i progressivi scivolamenti del mondo che sottilmente la vicenda dipana. In questo senso ogni personaggio è isolato in un’ossessione quasi “autistica”: Man-soo vuole raggiungere il suo scopo a ogni costo, mentre attorno a lui gravitano una moglie decisa a difenderlo senz’altro, una figlia prigioniera di una passione per la musica che è pronta a mettere a disposizione di tutti tranne che dei suoi famigliari, e un figlio che si diletta in furtarelli. Giocando con le aspettative dello spettatore, Park illustra insomma una sociopatia generalizzata (la stessa che lo portava a elevare a eroi i suoi vendicatori d’annata) che solo l’adesione alle convenzioni sociali può permettere di tenere sotto controllo. La scelta fa il pari con una progressione molto composita nel suo insieme, ma nel complesso molto più lineare dei tipici progetti dell’autore (complice probabilmente l’origine dal noir americano classico).

 

 
Si attua in questo modo una sorta di ricostruzione sociale al contrario, dove un protagonista che ha perso tutto deve ricomporre i pezzi di una vita, riallineandosi alle convenzioni di un mondo che nel frattempo è andato avanti: dalle battaglie sindacali deve così passare all’individualismo di chi fa da sé per riavere il diritto negato, scendendo a compromessi con quell’alcolismo che pure aveva tentato di superare, ma che gli servirà in almeno un importante passaggio della sua missione. Le persone diventano a loro volta soltanto pedine di carne da manipolare, concime buono per gli alberi coltivati con amore nella serra costruita con le proprie mani, pedine di un gioco di carte personale che è anche visione sociale. Il processo vede intrecciarsi finemente una sorta di liberazione del personaggio che però quanto più si immerge nei nuovi meccanismi, tanto più si condanna a una prigionia sintetizzata al meglio dallo splendido finale di trionfo/sconfitta nell’eterna partita fra l’umano e la macchina. Una scelta che rivela come dietro questa grottesca commedia nera resti sempre salda una visione profondamente amara dei cambiamenti raccontati profeticamente da Westlake già nel 1997.