Ritorno alla vita: risanare le colpe

49878_pplIl cinema di Wim Wenders viene da una matrice incrinata, nasce sempre da una forma del fare cinema che inciampa su una crepa, incorre nel danno che scaturisce dal suo pensare il cinema come la verifica di un’ipotesi assunta per buona. Non è un difetto, sia chiaro, è piuttosto l’incedere imperfetto del dispositivo cinefilo che si porta dentro, le ombre dei proiezionisti che improvvisano uno slapstick dietro lo schermo bianco, la reinvenzione del cinema (americano, ça va sans dire…) per decolonizzare il subconscio. L’on the road, il mélo, il noir, la fantascienza e tutto il resto destituiti non certo della loro aura, ma del loro sogno: la sensazione netta che Wenders lascia è quella di un regista che quell’aura la voglia toccare, come se allungasse la mano per accarezzare l’emblema e lasciare la sua impronta sulla libertà della strada, sul vibrare del sentimento, sulla colpa del mistero, sull’illusione del futuro…

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E allora ecco Ritorno alla vita, film archetipale, che maneggia figure piene di un dire classico, non necessariamente solo cinematografico: il successo, l’arroganza, la colpa, il rispecchiamento, la riconciliazione… Wenders lo costruisce come uno specchio in cui riflettere le tensioni del filmare, ovvero la sua consapevolezza del rapporto empatico con la matrice di un cinema che si porta dentro da sempre. Il dramma è quello di Tomas (James Franco), uno scrittore in crisi che ritrova il successo elaborando nei suoi libri l’innocenza di una colpa che gli cade addosso e lo tormenta: il suo fuoristrada ha frenato in tempo per salvare solo uno dei due ragazzini che gli si sono parati dinnanzi su una strada innevata, l’altro è rimasto ucciso e non c’è nulla da fare se non piangerlo. Il dramma è questo, e coinvolge lui, la sua compagna Sara (Rachel McAdams), Kate, la madre del bimbo morto (Charlotte Gainsbourg), e suo fratello Christopher, che anni dopo si parerà di nuovo dinnanzi a Tomas per chiedergli conto della vita che il suo SUV gli ha risparmiato. Il dramma è questo, chiaro, limpido nella sua drammaturgia fatta di passioni incrinate, colpe negate, perdoni cercati…, affrontato da Wenders con la risoluzione di un classico hollywoodiano dipinto nei colori primari elettrificati dal belga Benoît Debie.

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Ma il tema è quello dello scollamento tra la matrice e la forma che essa imprime, tra la sostanza della tragedia e ciò che la determina: Tomas è posto lì, di fronte alla morte di quel ragazzino, faccia a faccia con quel dramma che lo informa di sé, restituendogli l’ispirazione e privandolo della sua vita reale. Tanto quanto di fronte a lui si imporrà, anni dopo, il giovane Christopher, sopravvissuto per merito suo a quello stesso dramma, che finirà per guardarlo esattamente come Tomas contempla la tragedia che ha involontariamente determinato, ovvero come un’ispirazione, come qualcosa che gli ha dato una forma, ha riempito la sua sostanza. Il gioco drammaturgico di Ritorno alla vita è insomma quello che da sempre sorregge il cinema di Wim Wenders, questa frontalità tra l’ispirazione e la sua fonte, tra il dramma e la sua ragione: guardare in faccia Ozu o Nicholas Ray,  anziché il produttore datosi alla macchia o il regista disperso nelle strade di Lisbona, la madre di tuo figlio ritrovata dietro il vetro di un peeping show o i sogni e le visioni trasmessi attraverso una macchina del futuro… Il film è tutto un tentativo di ricongiungimento, l’atto di riconnessione tra ciò che è opposto, separato, in fuga reciproca. Come sempre il dramma wendersiano è sulla frattura, sulla separazione, sull’interruzione da risanare nel segno di una materia che è puramente immaginifica: Tomas che al luna park guarda la realtà come un dramma in atto che si realizza nell’incidente, è uguale e contrario al Tomas che nella sua villa viene osservato da dietro le finestre Wim-Wenders-RITORNO-ALLA-VITA-07da Christopher (magnifica inversione di segno rispetto al Travis di Paris, Texas), ed è lo specchio della disposizione cui Wenders consegna il suo film, la percezione di una eventualità drammaturgica che informa di sé il cinema e lo consegna alla sua classicità. E allora il 3D non è ovviamente una pura questione tecnologica, ma diviene lo strumento di una complessità proiettiva che tira dentro lo spettatore, lo dispone nella profondità delle forme, nelle scanalature della matrice.