Al crocevia fra l’autore che cerca di esprimere un punto di vista personale con le proprie opere e l’abile regista di mestiere che accetta di confrontarsi con i filoni più in voga del mercato si pone la parabola di Ryan Coogler. Alla luce di questo nuovo I peccatori, si fa infatti più urgente rivedere la sua produzione, i Creed e i due Black Panther, come operazioni di mimesi con cui entrare nel sistema per portare avanti una poetica dello scivolamento di senso tanto significativa quanto coraggiosa. È, per capirsi, quel lavoro di sponda che ha permesso alla saga di Rocky di recuperare la propria cifra black primigenia, ricollocando il punto di prospettiva fino a quel momento appannaggio dello “Stallone italiano” su Apollo Creed e la sua discendenza. Lo stesso vale per l’universo Marvel: la mega-operazione complessiva più centrale (sul lato produttivo e commerciale) nel cinema degli ultimi lustri, eppure altrettanto marginale dal versante spiccatamente autoriale per la stolida incapacità di produrre un immaginario che non sia di riporto (rispetto ai fumetti-fonte, ma anche ai film che di volta in volta sono stati saccheggiati alla bisogna).
Black Panther compie in questo senso un’operazione virtuosa, una dichiarazione d’intenti, che la comunità black fa sua tornando alle radici del continente africano quale ricettacolo di una (im)possibile storia alternativa, fatta di progresso tecnologico e (super)eroismo. Con I peccatori, Coogler alza la posta in gioco: racconta l’America degli anni Trenta, fra i cascami del gangsterismo bianco, il potere del Ku Klux Klan e il bisogno di due gemelli neri (interpretati dal sodale Michael B. Jordan) di tornare alla loro città per aprire un “juke joint”, uno di quei locali dove la comunità afro-americana si ritrova per vivere la propria musica e il proprio essere gruppo e collettività. Fin dall’incipit in cui i due gemelli Smoke e Stack comprano da un proprietario terriero bianco e razzista il capannone da allestire per la nuova attività, Coogler sottolinea proprio l’idea del ritorno, del riappropriarsi di un esserci, di una stanzialità incarnata nelle solide pareti di una costruzione reale e strappata all’odio altrui, ma anche di un immaginario autoctono. Siamo nel delta del Mississippi, a Clarksdale, a poca distanza da quella Louisiana dove negli stessi anni si realizzava una forma di solidarietà fra la comunità black e quella irlandese immigrata, con contaminazioni anche artistiche e musicali.
In questo senso, Coogler fa invece scontrare proprio neri e irlandesi, qui rivisitati come vampiri che nella seconda parte della storia muoveranno l’assalto al juke joint, secondo una dinamica che è tanto riscrittura dei codici espressivi del western, quanto ricalco di quel detour fra i generi proprio di un modello prezioso come Dal tramonto all’alba. Anche qui, infatti, il prima e il dopo descrivono due diverse tipologie di racconto. Prima c’è il dramma storico a sfumature noir, da grande epica americana, contrassegnata da un sogno imprenditoriale e di vita, che nelle mani di Coogler diventa ricognizione nel cuore della “sua” comunità. Il film si prende i suoi tempi, indugia sul vissuto dei personaggi, dona loro tridimensionalità e ne indaga il passato, i legami, il sogno di emancipazione dal lavoro nei campi di cotone, magari con il denaro rubato proprio ai gangster bianchi (Smoke e Stack hanno “lavorato” nella Chicago di Al Capone). È la parte di racconto più entusiasmante, perché riconcilia con dinamiche narrative da Hollywood classica, che Coogler riflette negli umori e nei suoni dell’America black, dove la musica e la religione giocano un importante ruolo di collante sociale e di punto di prospettiva anche politico rispetto al reale.
Poi, invece, subentra il cinema più febbricitante, scomposto, che procede a salti narrativi, senza soluzioni di continuità fra un personaggio e l’altro, per raccontare il conflitto tra il reale e il soprannaturale. In mezzo, quale ideale punto di snodo, un numero lisergico in cui la musica del locale diventa viatico ultraterreno fra il passato e il presente della comunità, in cui i livelli del reale e dell’immaginario si fondono per spianare la strada all’allegoria del fantastico e dell’horror. Il racconto è perciò denso e cerca di tenere insieme più spinte, umane, artistiche e espressive: si mantiene spesso sull’orlo del deragliamento, ma riesce a restare lucido nella sua focalizzazione sui drammi dei personaggi e sulle risonanze rispetto alla Storia e al destino della comunità di riferimento. Non a caso, se i due gemelli restano il cuore pulsante della narrazione, altrettanto significativa è la figura di Mary, donna di origini afro-americane ma espressione di quel “racial passing” (che riguardava i neri percepiti come bianchi per il colore chiaro della pelle) che è un po’ la sintesi di una visione del mondo fortemente identitario, ma comunque oltre ogni barriera. La interpreta Hailee Steinfeld, nel cui sangue scorrono davvero ascendenze afroamericane, segno di una puntualità della contaminazione in cui Coogler è felice di ritrovarsi e perdersi.