TFF41– L’inafferrabile memoria del cinema in Cerrar los ojos, di Victor Erice

Vita artistico cinematografica molto strana quella dello spagnolo Erice con all’attivo solo quattro lungometraggi (Lo spirito dell’alveare del 1973, El sur del 1983, El sol del membrillo 1992 e ora nel 2023 questo quarto film lungo) tutti decisivi e resi famosi anche a seguito delle critiche positive che hanno ricevuto, ma per il resto solo alcuni cortometraggi. Sarebbe dunque interessante indagare non tanto sulla poca prolificità del regista spagnolo, quanto piuttosto sulla spinta a realizzare i pochi film lunghi che evidentemente più che un’attività consueta nel tempo, diventano un’urgenza alla quale diventa difficile sottrarsi. Cerrar los ojos, già in cartellone al Festival di Cannes al di fuori di alcuna competizione, nella stessa forma non competitiva compare in programma nel TFF41. La storia è quella di Julio Arenas, famoso attore degli anni ’90, che dopo avere girato alcune scene di un film rimasto incompleto è sparito senza dare più traccia di sé, né ai familiari, né agli amici. Alcuni anni dopo a seguito di una trasmissione televisiva che si occupa di persone scomparse, il regista di quel film, la figlia e alcuni amici dell’attore vengono coinvolti nella rievocazione di quei fatti. La messa in onda della trasmissione riapre le speranze per la soluzione dell’enigma sulla vita attuale di Arenas.

 

 

Il nuovo film del regista spagnolo, in fondo, al di là di ogni possibile indagine che attiene alla trama sembra porre due temi di fondo che hanno in comune lo stesso denominatore, il cinema. È possibile che nella narrata scomparsa di Arenas si celi il desiderio di raccontare la propria stessa storia di regista scomparso al cinema e creduto perfino finito da un punto di vista artistico. Erice, in altre parole, ha forse voluto raccontare sotto altre vesti il proprio allontanamento dal cinema, ammantando la storia di quel mistero che attiene sempre ad una scomparsa dalla vita pubblica, ma anche riportandola ad una dimensione meno mitica, in una condizione di smarrimento della memoria, cioè di una vita che può continuare anche senza la memoria del passato, che resta affidata anche al cinema. E qui siamo al secondo tema. Cerrar los ojos è un omaggio esplicito al cinema come depositario di una memoria ineludibile, di quella stessa memoria che ci riguarda anche chiudendo gli occhi per non vedere ciò che accade. Una metafora forse non nuovissima, ma sempre emozionante quando si fa viva. Il cinema, nel racconto del film, diventa il catalizzatore necessario di questa memoria, il crocevia emotivo di un ritrovamento di sé stessi e di nuovo di quella forza che le immagini sprigionano. Dunque, Erice carica la sua storia di segreti e significati nascosti tra le pieghe di una memoria che diventa anche inaccessibile e tortuosa come, ad esempio, l’ambientazione del suo film in una remota villa della periferia parigina che si chiama “Il re triste”. Triste le Roy è anche il nome del luogo dove è ambientato un racconto poliziesco di Borges fondato su un tema cabalistico che riguarda l’impronunciabilità del nome di Dio secondo una tradizione ebraica.

 

 

Il cinema, dunque, diventa una struttura piena di altre strutture e Erice ce lo racconta in un film che sembra nato dalla penna dello stesso scrittore argentino, ma che al tempo stesso, al di là dei suoi tortuosi e invisibili significati, diventa un racconto che lega il suo cinema ad una personale visione come tema costante della vita, nonostante la distanza che l’autore ha sempre messo tra un film è un altro. È così per Miguel, il regista del film incompiuto, in una sovrapposizione con il personaggio che ci fa pensare ad un eteronimo dello stesso Erice. E così è per Arenas confuso e disperso nella sua amnesia retroattiva, che non trova soluzione se non nella magia del cinema. Scandito da una quanto mai efficace sottolineatura del suo valore quale tema costante della nostra vita in quel dare rilievo alla nostra memoria attraverso la mitizzazione delle sue immagini, e ciò che accada con i Lumière, esplicitamente citati nella loro sequenza dell’arrivo del treno, sia con il metafisico di Dreyer al quale si deve – come sottolinea una battuta del film – l’ultimo miracolo al cinema. Erice scrive e dirige un film che sotto la sua apparente semplicità narrativa – in fondo è solo l’indagine su una persona scomparsa al mondo – diventa un laboratorio della memoria, un film labirintico pieno di entrate e di uscite, un cinema quasi amniotico dentro il quale perdersi, oscuro, buio nei suoi anditi che forse da spettatori non riusciamo a vedere, personalissimo dunque. La sfida è ritrovare negli occhi chiusi quella stessa magia che ci riguarda e che di continuo sembra sfuggire perché le immagini del cinema restano inafferrabili.