The End of the Tour: resoconto intimo e quotidiano di un incontro

31ENDTOUR-master675-v4Sono passati vent’anni dalla pubblicazione di Infinite Jest, il monumentale romanzo che ha reso David Foster Wallace una stella della letteratura internazionale, venerata e invidiata come una rockstar, e quasi dodici dal giorno in cui lo scrittore pose fine alla sua esistenza impiccandosi nella sua casa di Claremont in California. In The End of the Tour il regista James Ponsoldt e lo sceneggiatore Donald Margulies raccontano un momento cardine della vita di Wallace – la fine del tour promozionale di Infinite Jest – e il rapporto con lo scrittore e giornalista newyorchese David Lipsky, che lo accompagnò in quei giorni per scrivere un suo ritratto sulla rivista Rolling Stone. The End of the Tour è il fedele resoconto, intimo e quotidiano, di un incontro: più che all’icona Wallace, interpretato con fragile garbo da Jason Segel, il film The-End-of-the-Tour2sembra interessato al confronto/scontro tra due menti e al rapporto di entrambi con il successo, ingombrante per uno e inafferrabile per l’altro. A parte una breve cornice che apre e chiude il film (la notizia della scomparsa dello scrittore, l’orazione funebre che un commosso Lipsky gli dedicò), la storia si concentra su quei pochi giorni in cui Wallace, timido e geloso di una privacy che la fama era destinata a togliergli, ospita Lipsky nella sua casa innevata nel profondo Illinois e sulle ultime tappe promozionali fatte di visite lampo in città anodine e di reading svogliati pieni di autografi e vuoti di senso. Inizialmente il film aderisce al punto di vista di Lipsky (che ha il volto spigoloso e frenetico di Jesse Eisenberg), presentato come scrittore ambizioso dall’incerto futuro che si imbatte, con malcelato fastidio, in una recensione entusiastica di Infinite Jest sul New York Magazine. L’invidia però, dopo la lettura, lascia presto spazio all’ammirazione, e Lipsky strappa a Rolling Stone l’incarico di scrivere un ritratto di Wallace.

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L’arrivo a casa di Wallace, un’abitazione modesta annegata in un mare bianco di neve, è per Lipsky quasi una dislocazione geografica, un confino dalla New York letteraria conosciuta e protettiva, un calarsi corpo e anima in territori non conosciuti, al di fuori di una qualsiasi confort zone. Tra i due uomini – che non potrebbero essere più diversi – si crea un legame istintivo mentre Lipsky (e noi con lui) si avventura nella mente di Wallace con un atteggiamento tra il riverente e l’intrusivo. Si dialoga del terrore di essere manipolati, dell’ansia da prestazione, di impossibili ideali di purezza, della maledizione di essere perennemente giudicato. Il tono del racconto rifugge gli infingimenti letterari, senza insistere sull’aura maudit dello scrittore travagliato – il passato da vero alcolista e presunto tossico con tendenze suicide di Wallace – quanto concentrandosi sull’irriducibile dicotomia tra personaggio pubblico e persona privata, sul baratro che separa lo scrittore dal mondo che descrive. L’approccio narrativo (e parallelamente lo stile del film) è timido e confidenziale, segnato dalla smania di piacere di Lipsky e dalla sincerità forzata che Wallace si autoimpone. A marcare la distanza tra i protagonisti riappare spesso al centro dell’inquadratura il registratore portatile con cui Lipsky registra le conversazioni: un monolite che tiene insieme un’amicizia che sembra fiorire e l’obbligo di una testimonianza alla luce del sole. E se Ponsoldt cerca di costruire la personalità di Wallace attraverso le sincopate sedute di reciproca maieutica che i due personaggi improvvisano, parallelamente The End of the Tour traccia una geografia – fisica ed emotiva – di un’America neo-postmoderna. I dialoghi sul junk food, sulla dipendenza dalla televisione (e da tutto il sistema codificato di immagini che porta con sé), sul senso di inadeguatezza che sfocia in paralisi emotiva, hanno la stessa rilevanza dei paragoni con Salinger o Fitzgerald, Hemingway o Pynchon; il poster di Alanis Morrissette si mescola sui muri di casa Wallace con le cartoline di Updike o le citazioni di Sant’Ignazio in un vortice di bulimia culturale ed esistenziale che raddoppia la solitudine e la depressione dell’artista. A fare da sfondo a questa anamnesi si srotola una litania di non luoghi (autostrade, drugstore, supermercati, diners, stanze d’albergo, centri commerciali, multiplex) che rappresenta l’anima più sincera dell’America contemporanea, il suo sotterraneo cuore pulsante.

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Tutto, in questo regno del consumo spropositato, tende a trasformarsi in dipendenza, in addiction, che forse è la parola chiave di tutto il film: alla tv, alle droghe, all’alcol, al cibo malsano, all’attenzione degli altri. Una schiavitù che Wallace combatte – perdendo – attraverso la rivendicazione di una impossibile normalità («I treasure my regular guyness», dice spazientito a Lipsky), di un diritto ad essere gradevolmente sgradevole («Pleasantly unpleasant», come lo definisce una sua vecchia amica). L’attaccarsi a una vita che forse non vale la pena di essere vissuta, che è solo un guscio vuoto: questo è il panico primordiale di Wallace, descritto in Infinite Jest attraverso la metafora di un uomo che si getta da un grattacielo in fiamme – immagine preveggente, simbolo anni dopo della tragedia dell’11/9 – perché l’alternativa, la sopravvivenza, è più tragica della caduta. Wallace, con il suo goffo corpaccione, la bandana come coperta di Linus, l’ossessione per una sorta di controllo autolesionista, il rifiuto di un ruolo codificato da interpretare, è un dolce cadavere che cammina e la scena dell’addio con Lipsky – che quasi preconizza una fine certa – assume i contorni di uno straziante commiato, narrato in levare come tutto il resto del film. In un attimo di assenza di Wallace, Lipsky perlustra la casa, prendendo appunti al registratore, dettando ciò che vede – poster, libri, medicinali nel bagno, tratti allo stesso tempo peculiari e banali nell’arredamento – come un personaggio di CSI alle prese con una scena del crimine. Dettagli superficiali di un anatomo-patologo su un artista che non è riuscito a sopravvivere al proprio destino, vittima della propria incapacità di tracciare i labili confini di una pur ipotetica felicità.