Arrivato al quinto lungometraggio in dieci anni, il percorso che Legendary Pictures sta dedicando alle principali icone “mostruose” del fantastico inizia a delinearsi in una forma più chiara, con una linea narrativa precisa e un regista che è emerso rispetto ai colleghi come l’autentico deus ex machina della situazione. Adam Wingard, qui al secondo “capitolo” consecutivo dell’epopea, è in questo senso un director di buon mestiere, ma privo dell’allure autoriale che aveva invece caratterizzato l’approccio di Gareth Edwards e, in misura equivalente ma diversa anche quelli di Jordan Vogt-Roberts e Michael Dougherty: eppure è stato abile nel cogliere gli spunti migliori dell’avventura e nel segnare il passaggio della narrazione a un autentico protagonismo dei mostri, ormai elevati a veri e propri protagonisti della storia, cui è dedicata la maggior parte dello screen-time, come mai si era visto persino nell’epoca classica di Godzilla e Kong. In questo senso, Il nuovo impero è un film che riannoda i fili con il passato, per creare un nuovo step evolutivo del genere, al pari di Godzilla che “muta” in una forma nuova: più snella, agile e rosea, in un mix che ha fatto muovere paragoni rispettivamente con Barbie e Dragon Ball Super, e che qualcuno ha persino voluto vedere come metafora della cultura transgender. Di sicuro c’è la rilevanza che l’ormai settantenne sauro atomico è riuscito a riconquistare nell’immaginario popolare, che conferma la sua duttilità metaforica e che va di pari passo con il fare invece la guest-star di lusso in una pellicola che ha in Kong il suo motore narrativo e emozionale.
Finalmente libero dalla condanna della morte a fine pellicola che aveva segnato i suoi exploit più celebri – da quello fondativo del 1933 al remake di Peter Jackson del 2005, senza dimenticare l’altro di John Guillermin del 1976 – il gorilla gigante è ormai un character espressivo e definito, sornione come l’eroe di un fagioli-western (quando lo vediamo atterrare un avversario con un cazzotto ben assestato si pensa quasi a un Bud Spencer in formato ubersize), ma senza disperdere la malinconia che gli è propria e che gli deriva dalla condizione forzatamente apolide, alla perenne ricerca di affetti e di una casa. Troverà invece un formidabile avversario nel nuovo antagonista Scar King, sorta di titanico orangutan con tanto di “cinturone” a tracolla (la spina dorsale di un rettile abbattuto) che alla bisogna può diventare una temibile frusta, in un ulteriore rimando al western nostrano, si pensi ai pittoreschi cattivi dei film di Sergio Corbucci o Lucio Fulci. In questa faida da Pianeta delle scimmie in formato gigante, Wingard è bravo nel condurre lo spettatore con il giusto passo: mentre seguiamo i protagonisti umani e lo stesso Kong all’esplorazione della verniana terra cava, il film si dipana come un titolo avventuroso degli anni Sessanta, alla Ray Harryhausen o Robert Stevenson (il regista disneyano), con quel gusto della scoperta che non recede mai da un genuino senso della meraviglia per le creature, i passaggi segreti e gli ambienti fantastici, che gli autori snocciolano senza soluzione di continuità.
Mentre evolve, insomma, il concept riafferma la sua natura classica, il ritorno a casa di icone e strategie narrative altrimenti considerate démodé, almeno sino all’incontenibile esplosione d’azione finale, più tarata sui canoni del moderno blockbuster. In tutto questo, Godzilla e Kong: Il nuovo impero, calibra le parti in modo da tenere insieme più percorsi narrativi, come già nel precedente Godzilla vs Kong, tutti destinati a confluire nel terzo atto. Si permette così di portare lo spettatore in giro in più location (c’è anche Roma) e di lanciare qualche piccolo riferimento al mondo là fuori, con le multinazionali che hanno messo gli occhi addosso alla terra cava per il possibile sfruttamento delle sue ricchezze, le centrali nucleari che restano un monito perenne alla contaminazione degli ambienti e il nemico che vuole invadere la superficie per la sua sete di dominio. La dinamica è nota: sotto la patina dell’intrattenimento puro, la saga di Godzilla da sempre respira degli umori delle epoche in cui viene prodotta e i venti di guerra che serpeggiano nel nostro presente non restano inascoltati. Come non lo è nemmeno la logica dei “confini” che dividono e fomentano la conflittualità fra i popoli, che anche nel cinema più “alt(r)o” è oggi sotto perenne osservazione. Il tiranno invasore è dunque la carta che il MonsterVerse getta nell’arena, ma ancor più efficace è il tono derisorio con cui Godzilla e le altre creature abbattono monumenti celebri, ignorano la contraerea, scavalcano arene e attraversano portali che non dividono ma uniscono le varie aree del pianeta. Per loro i confini, semplicemente non esistono.