Venezia 76 – Maternità e sacrificio: Pelikanblut di Katrin Gebbe

C’è un cinema al femminile che negli ultimi anni sta raccontando con forza i drammi materni attraverso la trasfigurazione fantastica: l’esempio più noto è quello di Jennifer Kent, con Babadook e in parte anche Nightingale, cui possiamo ora affiancare questo Pelinkanblut (letteralmente: il sangue del pellicano, dall’iconografia cristiana che vede l’animale in questione resuscitare i figli con il proprio plasma). D’altra parte, purezza e corruzione, amore e ossessione sono temi cari alla regista tedesca Katrin Gebbe, come aveva già dimostrato il precedente Tore Tanz, presentato al Certain Regard di Cannes e incentrato sull’odissea di un ragazzo che si ritrovava a passare da una comunità religiosa al mondo di fuori, dando così vita a una rinnovata via crucis. Stavolta a compiere il percorso doloroso è Wiebke (una eccellente Nina Hoss), con una cicatrice sullo zigomo che rivela un passato difficile, ma un desiderio di maternità non domo. Dopo aver cresciuto con successo la piccola Nikolina, la donna decide infatti di adottare anche Raya, apparentemente timida e incantevole, in realtà feroce come se fosse posseduta da un’entità distruttrice. Come il pellicano del titolo, Wiebke dovrà pertanto confrontarsi con le difficoltà date dal nuovo rapporto madre/figlia fino alle estreme conseguenze di guardare il demone dritto negli occhi. Sebbene il presupposto possa ricondurre direttamente al genere, Pelikanblut sceglie di affrontare lo stesso in una chiave più sfumata e realistica: non vedremo mai il mostro e in primo piano resta sempre il dramma umano di una donna che non si arrende ed è disposta a ogni sacrificio pur di mantenere vivo il rapporto con quella figlia priva di emozioni e votata unicamente alla violenza.

Il fatto che Wiebke sia allo stesso tempo un’addestratrice di cavalli, abituata quindi a gestire le bestie più indomite, suggerisce da un lato l’abnegazione a cause apparentemente più grandi e dall’altro la conoscenza di un universo meno teorico e più emotivo, che arriva a sposarsi facilmente con le possibilità dell’irrazionale. Ugualmente, la regista è abile nell’avvolgere la vicenda di un’aura di ambiguità, seguendo la missione di Wiebke con empatia, ma senza nascondere come in fondo si tratti anche di un progressivo sprofondamento nell’ossessione. La missione di salvezza diventa così anche un percorso (auto)distruttivo, che finisce per minare ogni legame nel frattempo costruito dalla donna: quello romantico con un possibile nuovo amore, quello professionale al maneggio e, soprattutto, quello materno con la primogenita Nikolina che non accetta le attenzioni verso la sorellina malvagia. Il doppio passo è supportato da uno stile visivo lirico e di caratura espressionista, che lavora con i chiaroscuri e le asprezze del paesaggio rurale, contrapponendo l’utilità pratica del lavoro con gli animali (destinati a servire i poliziotti a cavallo) a una dimensione più primordiale. Wiebke cerca così di rivitalizzare la componente emotiva di Arya instaurando con lei un legame da primissima infanzia, torna ad allattarla, a trattarla come se fosse appena venuta al mondo, esaltando in questo modo il senso di una regressione temporale che è esattamente opposta a quell’emancipazione che la protagonista aveva ottenuto affrancandosi dal suo passato di violenze. Un passaggio pure sottolineato dal progressivo ritrovarsi sola della famiglia (Arya viene pure evitata dalle coetanee e scacciata dall’asilo). La dimensione horror del racconto, così, si giova di questa componente, suscitando un palpabile disagio, contrappuntando il racconto con una dimensione fisica (si pensi anche al motivo ritornante del morso) che si unisce a doppio filo a quella spirituale data dalla possibilità che a tirare le fila del destino sia per l’appunto un’entità malefica. La scelta di Wiebke di ricorrere alla magia dopo aver visto fallire le possibilità della scienza (in una sorta di rivisitazione del percorso che quarant’anni fa compiva il classico L’esorcista) è così coerente con questa dimensione costante del doppio, a metà fra tormento e volontà ferrea, tra maternità come forma d’altruismo supremo e sacrificio, fra realtà e fantastico, tra amore e ossessione. Presentato a Venezia 76 come film d’apertura della sezione Orizzonti.