Sette giorni: sono i capitoli che scandiscono il racconto – la «memoria di quell’estate», come dice la regista –, sono la concentrazione o dispersione di tracce minime, impercettibili, di senso, sono un tempo. È il mondo di Mama (Ma ma he qi tian de shi jian) – in concorso alle Giornate degli Autori –, lungometraggio d’esordio della cinese Li Dongmei, che nelle note di regia specifica: «Mia madre è morta il 29 agosto 1992, quando avevo dodici anni. Ventisette anni dopo, la mia memoria è tornata su quei momenti legati alla sua scomparsa e alla vita quotidiana nel villaggio. […] Ho usato il film per riconciliarmi con quella ragazza di 12 anni e con mia madre che non ho potuto salutare. […]». Xiaoxian, la più grande, e le sue sorelle. E la famiglia, gli amici, la scuola, gli incontri, i passaggi, la luce del giorno, la sera, l’andare e il tornare, la distanza tra la casa nel bosco e la cittadina. Non c’è una trama in questa Cina rurale e lontana, in questa memoria sospesa tra pudore e tempo perduto, in questa narrazione che non è mai progressiva, che resta piana, perché è l’apparente andamento digressivo il vero sentimento, il tentativo di riappropriazione della regista. C’è qui, piuttosto, una relazione non scontata, quasi invisibile, quasi misteriosa tra le cose, tra i gesti quotidiani, tra i personaggi che camminano, cucinano, pranzano, restano in silenzio, tra i poli della vita e della morte.
La camera è fissa, i primi piani non servono, le figure vengono descritte, definite dai luoghi, e abitano l’inquadratura o la attraversano come in un documentario clandestino, paradossale, impossibile, girato da lontano, girato «ventisette anni dopo», perché la cinepresa osservativa della regista sembra davvero guardare questi personaggi, che diventano anche minuscoli, chiazze, dei puntini nello spazio, da una dimensione altra, da un tempo del reale e della finzione, del racconto, ri-orientato, critico, perché basta l’inizio di Mama ad “accompagnare”, ad avvicinarsi, a (ri)condurre Xiaoxian/Li Dongmei lungo un sentiero nel bosco che apre poi alla narrazione, alla storia di formazione da un villaggio remoto. Un film lungo (134’), di confini affascinanti e irrisolti, e immancabilmente anche ripetitivo, ma sinceramente votato alla ricerca imperfetta della sua segreta verità, piuttosto che di automatismi formali, lirici, derivativi. Opera che nella sua malinconica impassibilità custodisce l’universo interiore dei personaggi dentro il loro vissuto, senza caricarli di significati; che nel suo andamento lentissimo mostra senza dire e cerca di rivelare se stessa più che l’autobiografia dell’autrice; film che, ancora, sembra cercare – tra i ricordi, la perdita, lo spazio della natura o di una stanza – un’identità complessiva più che individuale, un’idea, prima ancora che una sostanza. Una forma ideale. Mama che forse, in tutto questo, non sa davvero infine se trattenere o liberare il tempo. Ma su quel tempo sentiamo, vediamo comunque uno sguardo.