THE POWER OF THE DOG: BENEDICT CUMBERBATCH as PHIL BURBANK in THE POWER OF THE DOG. Cr. KIRSTY GRIFFIN/NETFLIX © 2021

La poesia e l’istinto tossico di Il potere del cane di Jane Campion

Si è fatta attendere a lungo, l’attesa è stata premiata: dopo Ritratto di signora (1996) e Holy Smoke (1999) Jane Campion è tornata in concorso alla Mostra del cinema di Venezia. A dodici anni dall’uscita di Bright Star e a quattro dalla seconda stagione della serie Top of the Lake, dopo una lunga pausa in Australia e il tentativo di adattare per il grande schermo I lanciafiamme di Rachel Kushner, Campion firma un film ambizioso, evocativo, spiazzante. È complicato scriverne senza rivelare in anticipo elementi essenziali della trama. Di seguito quindi alcune coordinate, cercando di non rovinare la festa. Il potere del cane (The Power of the Dog), in uscita al cinema a novembre e su Netflix il 1° dicembre 2021, infatti, lavora per la maggior parte del tempo sull’indicibile, il controllo delle emozioni, una tensione psicologica costante. Sulla forza delle immagini, la composizione dell’inquadratura, i dettagli, come suggerisce il magnifico trailer. Girato in Nuova Zelanda, dov’è stata ricreata l’originale ambientazione di Beetch, Montana, ci proietta nel paesaggio sconfinato eppure claustrofobico dei fratelli Burbank: Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), che nel 1925 conducono da celibi, ormai da venticinque anni, una vita da allevatori nella grande, signorile fattoria ereditata dai ricchi genitori, inspiegabilmente assenti. Phil si dimostra già dalle prime scene un uomo complesso, colto ma ostentatamente rozzo e aggressivo, al contrario di George, educato e timido, più elementare e meno osservatore. Il già fragile equilibrio tra loro si incrina quando George sposa frettolosamente Rose (Kirsten Dunst), vedova che gestisce la locanda in città e che si trasferisce nel ranch insieme al figlio Peter (Kodi Smith-McPhee), un ragazzo più determinato di quanto sembri e che Phil ha già bullizzato per la sua attitudine poco virile.

 

 

Il potere del cane va anche oltre la definizione di “western atipico”: non ci sono pistole, duelli, rapine, carovane, cacce all’uomo. Eppure è fisico, sensoriale, coerentemente ai film precedenti. La percezione prevale sull’azione, sulla contabilità dei turning points di sceneggiatura. Evita i dialoghi espliciti e invita ad aprire i sensi, cogliere le suggestioni nascoste, i non detti espressi da particolari in secondo piano, sguardi impauriti, piccoli gesti spesso solitari. Le stesse coordinate su cui si muove il romanzo omonimo di Thomas Savage (1915-2003) da cui è tratto. Uscito nel 1967 negli Stati Uniti (da noi nel 2003 da Ponte alle Grazie e ritradotto nel 2017 da Neri Pozza), è ispirato, come suoi altri, alla sua reale esperienza di mandriano nato in Montana, e non a caso si apre con l’immagine di Phil che coltello in mano, castra centinaia di vitelli. Annie Proulx, la scrittrice dal cui racconto di cowboy nel Wyoming degli anni ‘60 Ang Lee ha tratto I segreti di Brokeback Mountain – e che ha accompagnato Campion e la produttrice Tanya Seghatchian nei sopralluoghi in Montana – nella prefazione all’edizione italiana del romanzo di Savage fornisce la chiave di lettura del romanzo, enucleando l’elemento che resta sottotraccia e su cui all’epoca dell’uscita molti critici glissarono, e che il film trattiene quasi fino all’ultimo capitolo dei cinque in cui si articola. Quanto al titolo, viene dall’Antico testamento, Libro dei Salmi: “Libera l’anima mia dalla spada e il mio amore dal potere del cane”. Laddove il cane può essere un’illusione ottica del paesaggio, una prova percettiva a cui Phil sottopone Peter. Ma anche un riferimento a una violenza cieca, a un “istinto animale sessuale, feroce, potente e pericoloso” (Jane Campion, nelle note stampa del film). Un istinto distruttivo, sterile, ferale. Per dirla con un aggettivo in voga: tossico.

 

 

Certo è che nell’ambientazione rurale e primitiva del romanzo Campion abbia trovato terreno adatto per liberare contrasti a lei cari, quell’inscindibile, peculiare intreccio di poesia e matericità, delicatezza e violenza della natura. La matrice antropologica e figurativa della regista infatti anche qui produce immagini di nitida bellezza: tra le tante, le dita di Peter che torturano i denti di un pettine, il quasi controluce di Phil, cappello in testa, che tiene tra le mani il bouquet di fiori di carta confezionati da Peter, una sella di cuoio accarezzata come una reliquia, animali fatti oggetto di crudeltà. Sì, c’è anche un pianoforte in scena e no, non si tratta di una strizzata d’occhio al film più noto della neozelandese. Semmai è la presenza di Geneviève Lemon, nel ruolo della domestica Mrs. Lewis, già protagonista dell’esordio Sweetie, ad assicurare la continuità in una filmografia di corpi compressi o repressi, sempre scomodi nei loro vestiti, che reclamano spazio, libertà. Il piano a coda è già presente nel romanzo e gioca un ruolo determinante nelle sequenze più compiute e inquietanti del film, giocate sul fischio sulla Marcia di Radetzky, a illuminare il personaggio di Rose (una Dunst mai così in parte e dalle parti di Melancholia) e rievocare la minaccia fisica, incombente di La morte corre sul fiume, ibridandola con il ricordo sonoro del banjo di Un tranquillo weekend di paura. La presenza musicale anzi è molto misurata rispetto alle impetuose iterazioni di Lezioni di piano, e la composizione di archi, piano, violoncello e corni di Jonny Greenwood (suo anche lo score di Spencer, in concorso) si manifesta in momenti topici di inquietudine e oppressione, quasi hitchcockiani. Ma è Benedict Cumberbatch il vero nucleo, motivo dominante e traino del film. Un lonesome cowboy che concentra in sé l’irrequietezza, la frustrazione, la complessità e la solitudine dei personaggi prediletti da Campion, femminili e non. In un film che cammina sul filo della sospensione, dello sbandamento, è disturbato dall’ilarità ebbra di una compagnia di amici che festeggia cantando. Turbato dalla presenza di una donna in casa, fa precipitare Rose in un alcolismo allucinato, come in un dramma di Kazan o di Williams, ossessionato da quel ragazzo efebico e troppo magro. Indossa jeans coperti da un manto lanoso che lo fanno sembrare una creatura metà uomo, metà animale, deve continuamente tenersi occupato con qualcosa di manuale. È una performance commovente per le fragilità a cui si espone, affidandosi alla regista. In un continuo duello di osservazione di Peter, il suo Phil continua a sanguinare – ferendosi alla mano – come una donna, ma si ostina a non lavarsi. “I stink and I like it”, dice, per sottrarsi agli impegni sociali, riecheggiando un luogo comune sull’autentica virilità. Avrà infine un suo particolare bagno solitario. Bastava saperlo aspettare.