La raggelata geometria di Spencer di Pablo Larraín

Una Porsche corre attraverso una campagna deserta, emblema di un’Inghilterra rurale, lontana dalle luci londinesi. Quell’auto è un punto nero all’orizzonte, che taglia il verde macinando miglia. A guidarla è la principessa più famosa del mondo, Diana, costretta a fermarsi per chiedere informazioni sotto lo sguardo stupefatto dei locali, sbalorditi di fronte a un’apparizione che si rivela come una presenza aliena, un’apparizione ectoplasmatica. Le prime parole che escono dalla bocca della futura regina – o presunta tale – sono: «Cosa cazzo ci faccio io qui?», a premettere un’alterità che sarà la cifra, la dicotomia irriducibile al centro del film. In Spencer – “una favola ispirata a una tragedia vera” – Pablo Larraín immagina i tre giorni di Natale del 1993, le ultime feste trascorse da Diana in famiglia, o meglio, con la famiglia di suo marito, ormai a lei sempre più estranea. Spencer inizia con l’arrivo in solitaria della principessa nella residenza di Sandringham House e con il suo immediato doversi piegare alle regole imposte dalla casa, dalla tradizione, dal ruolo che faticosamente continua a ricoprire. Prima di lei erano giunte alla magione, trasportate da una colonna di mezzi militari, le vettovaglie destinate ai pasti festivi: ché ogni pranzo, ogni merenda, ogni momento conviviale ha la precisione di un’operazione di guerra, refrattaria a ogni libertà e trasgressione. Larraín descrive questo mondo imperturbabile e opprimente con una raggelata geometria, con colori freddi come i sentimenti che abitano le infinite stanze, lasciando a Diana i punti di colore, gli scarti, le capricciose ribellioni a leggi più grandi di lei.

 

 

Ma sarebbe superficiale pensare che il regista cileno abbia voluto fare un’agiografia della “principessa triste”: pur rappresentando con evidente disprezzo quel mondo asettico e in continua negazione di una decadenza (di un marcire) già in corso, Larraín non si rifugia nell’ovvia solidarietà a quel biondissimo animaletto finito in trappola, pronto a essere impallinato come i fagiani della caccia – militaresca anch’essa – organizzata per uccidere il tempo del tedio reale. Spencer, come era già avvenuto in Jackie, più che tracciare un ritratto, disegna un conflitto perenne e irriducibile. Quello tra il singolo e l’istituzione, tra l’individuo e lo Stato, tra le ragioni personali e i doveri pubblici, che inseguono e intrappolano anche nei corridoi interminabili dei possedimenti familiari. A far sognare un’età dell’oro sfumata nei ricordi dell’infanzia, rimane un vecchio cappotto che adorna uno spaventapasseri nella casa natìa, quasi uno sberleffo verso ciò che è stato e che non sarà mai più, nonostante gli ingenui tentativi di resistenza allo scorrere del tempo.

 

 

La Diana di Larraín è una marionetta abbandonata in un labirinto da cui non può uscire, legata a ricordi pavloviani, schiacciati dal peso di un presente assoluto, che è il tempo del potere e della famiglia. Spencer è in fondo un horror su una prigioniera che sogna un’indipendenza già perduta, che si aggira in un mondo artefatto – Elisabetta, Carlo e gli altri reali si muovono con un’economia di gesti che sembra simbolizzare un’immobilità eterna – muovendosi come un pupazzo inconsapevole. Kristen Stewart, con il suo ciglio perennemente umido, con il giocoso amore verso i figli, con l’infantilismo malinconico di una ribellione solo abbozzata, dona a Diana un’inquietudine malsana, un’aria capricciosa destinata a sbattere contro il muro impenetrabile della Royal Family. Sandringham House è l’Overlook Hotel di Diana, abitato da concretissimi fantasmi che la donna inutilmente si ostina a combattere, con apparizioni e ombre, rumori e liturgie. Una favola, certo, ma nerissima, dal sapore quasi kinghiano, impreziosita da inquadrature e sospensioni che rimandano fino a Hitchcock e da una colonna sonora (di Johnny Greenwood) che alterna i toni del languore a dissonanze inquietanti. Spencer è un film misterioso e indefinibile che mette in scena senza pietà un personaggio ingoiato dall’implacabile violenza del potere, che come Crono si perpetua divorando i suoi figli; un’opera che nasconde nel finale in chiaroscuro gli oscuri presagi che preconizzano la fine di Diana, già scritta nel chiuso di quelle stanze, già chiara nell’affanno di corse a perdifiato senza direzione, senza costrutto, senza futuro.