Venezia78 – L’universo interiore di Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song di Daniel Geller e Dayna Goldfine

Come lo racconti in modalità cinematografica un uomo che è diventato un cantautore immenso , aggiungendo la musica alla sua poesia, un antidivo che ha continuato a essere soprattutto un letterato, al punto che c’è chi sostiene che avrebbe dovuto vincerlo lui il Nobel di categoria, assegnato invece al magnifico Dylan? Come lo racconti Leonard Cohen? Non so se esiste la prospettiva giusta per farlo, ma la formula adottata da Daniel Geller e Dayna Goldfine in Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song, fuori Concorso a Venezia 78, mi pare innovativa, se non anche azzeccata. I due registi utilizzano infatti una canzone tra le molte di una produzione sontuosa, come magnete che tutto attrae, baricentro intorno al quale gira il resto. Ora, si può discutere sul fatto che la ballata Hallelujah sia o meno la creatura più preziosa di Cohen, la bella fra le belle. Personalmente ne metto altre cinque almeno sullo stesso piano (Suzanne, Dance Me To the End of Love, Bird On the Wire, The Partisan, In My Secret Life) e non riuscirei a buttarne nessuna dalla classica torre; ma il punto non è questo, e non lo è nemmeno il fatto che il brano per parecchio tempo sia stato più conosciuto nella versione struggente di Jeff Buckley che non in quella del suo artefice, o che – oggetto di molteplici cover – sia infine divenuta materia abusata, buona per tutti le occasioni. Il motivo che ci rende non molesta la delimitazione di campo riposa piuttosto nel fatto che quel pezzo viene utilizzato come chiave d’accesso a un universo interiore che è sicuramente cambiato nel corso del tempo (come pure la sua musica e il suo stesso approccio ai live, da songwriter riottoso a crooner empatico), ma ha mantenuto ferme coordinate quali poesia, ricerca spirituale e della felicità, nonché un rapporto di conflittualità dialettica con la religione dei suoi avi.

 

 

Ecco allora che, se il film comincia dalla fine, ovvero da un frammento dell’ultimo concerto di Leonard nel 2013, è per mettere a fuoco da subito Hallelujah, ribadendone la centralità già esplicitata nel titolo, portatrice di versi insieme arcani e sublimi: “C’è un ondata di luce in ogni parola/non importa quale hai ascoltato/l’hallelujah sacro o quello spezzato”. D’altronde alla canzone, pubblicata soltanto nel 1984, l’artista ha lavorato a lungo, procedendo per piccoli aggiustamenti del testo, che peraltro era di buon livello fin dalle stesure iniziali, come testimoniano alcuni dei brogliacci che si conoscono. Attendendo il momento giusto per vestirla con l’abito sonoro che aveva in testa ma che non riusciva a esprimere compiutamente, un arrangiamento come quello che infine gli ha scovato John Lissauer, collaboratore in diversi periodi della sua carriera. Che è stata lunga, nonostante sia iniziata tardi, ma che ha scontato corposi periodi di totale distacco (non solo dalla musica), conseguenza della depressione o del desiderio di meditare nel silenzio di un monastero.

 

 

Dopo aver messo le carte in tavola, la narrazione procede con ritmo sincopato, per illuminazioni progressive, saltando qua e là senza rispettare un andamento strettamente cronologico, periodicamente attratta da quelle note ipnotiche, da quella voce salmodiante che canta un inno profano con solennità sacra. Scorrono episodi che dicono molto in poche battute; tra questi, la testimonianza della collega Judy Collins, che di fronte a un Cohen dubbioso rispetto al poter essere un musicista, al saper scrivere canzoni, ascolta rapita l’inedita Suzanne e lo rassicura così: “So che questa è una canzone, e che io la inciderò domani”. E ce ne sono altri poco rivelatori, come quello in cui la mancata pubblicazione negli States dell’album Various Positions (che contiene per l’appunto Hallelujah) viene banalmente liquidata come l’effetto di un’antipatia personale del nuovo presidente Columbia verso l’artista.
Di sicuro non è un biopic che cerca il dettaglio sconosciuto e ancor meno quello sensazionalistico. Neppure scandaglia il passato remoto in cerca dell’appiglio premonitore che possa far intuire nel bambino il futuro fuoriclasse: dell’infante (e dell’adolescente, del giovane) che nacque in un’agiata famiglia ebrea di Montréal non ci viene svelato quasi nulla, e comunque niente di memorabile. E pure nel prosieguo, più che l’aneddoto valgono le suggestioni, per tentare di afferrare un uomo carismatico, sempre in cerca di senso, egualmente interessato al viaggio quanto alla meta.