Voglio prendere l’ascensore, la rivalsa e la difficile convivenza fraterna in I fratelli De Filippo, di Sergio Rubini

Leviamoci subito il problema dell’indiscutibile rapporto che questo film possiede con quello, appena uscito dal circuito delle prime visioni di Mario Martone, che, peraltro, in una stretta cronologia storica si adatta perfettamente a diventare il magnifico incipit di una vicenda umana e, più generalmente culturale, che ci riguarda come italiani, appartenendo i loro protagonisti ad un pezzo importante delle nostre fondamenta culturali che hanno reso grande il teatro italiano nel mondo. Laddove Martone con il suo Qui rido io centra la propria attenzione su Eduardo Scarpetta e la sua vita fantasiosa e a tratti eccessiva, due famiglie, due amanti, vari figli dispersi e una febbrile attività di scrittura e direzione della propria compagnia teatrale, I fratelli De Filippo, che già dal titolo basico denuncia le proprie intenzioni, incomincia la storia là dove Martone la chiude con la vicenda di Eduardo, Titina e Peppino De Filippo figli mai riconosciuti di Scarpetta, che qui trova il volto e la credibile interpretazione napoletana, su altri registri rispetto a quella che ci era stata offerta da Servillo, del ligure Giancarlo Giannini. Scarpetta presto uscirà di scena dopo avere escluso da ogni lascito i tre figli De Filippo, cognome della madre Luisa, (Susy Lo Giudice), amante mal sopportata dalla moglie Rosa (Marisa Laurito). Da qui l’ascesa dei De Filippo, i loro intimi contrasti, la mal sopportazione del carattere autoritario e decisionista, a volte sgarbato e antipatico di Eduardo da parte di Titina e Peppino, che più volte, fino al definitivo distacco avvenuto nel 1944, fu sul punto di abbandonare ogni progetto di compagnia teatrale dei tre fratelli, sogno soprattutto di Eduardo, che imponeva la sua leadership molto discussa –  stando al racconto che ne fa Rubini che ha scritto la sceneggiatura insieme a Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini – egli sottolineava, per nulla preoccupato, di compromettere i rapporti familiari oltre che quelli artistici e professionali.

 

 

Così come, d’altra parte, in una sorta di vendetta artistica è lo stesso Eduardo a troncare i rapporti con la famiglia Scarpetta e con Vincenzo – Biagio Izzo finalmente fuori dalle secche di personaggi spesso stereotipati – diretto erede anche artistico della compagnia del padre. Rubini lavora essenzialmente su un piano di realtà, che non sembra alterarsi neppure quando la scena riproduce i testi teatrali. Lavoro non semplice per un film che supera abbondantemente le due ore, che scorre felicemente in una visione mai ridotta del reale e, trasversalmente, in quella sfera di intimità che riguarda i rapporti familiari. I toni vanno dalla ricostruzione storica di una Napoli anteguerra, che sa tenersi giusto un passo indietro da un fondale un po’ troppo di maniera, a quelli di un classico, ma solido biopic. L’iconografia della città si presta a completare gli scenari ripetendo ancora la combinazione straordinaria tra l’arte teatrale e popolare di cui i De Filippo si sono fatti eredi e l’indissolubile legame con la spontanea teatralità popolare napoletana. Rubini a tratti esalta le potenzialità di questi fondali, di una Napoli a tratti tumultuosa e, quale controcanto ad ogni idilliaca contemplazione, riempie la scrittura di una umanità a volte scontrosa e sospettosa, a cominciare dal nucleo familiare allargato dentro il quale i fratelli crescono. Il regista pugliese dimostra il coraggio di animare i dissidi, di fomentare l’esasperazione dei rapporti.

 

 

Il racconto di Rubini sa restituire le proverbiali asperità che poi avrebbero portato alle altrettante proverbiali stelle, per realizzare quella rivoluzione teatrale, rispetto al passato scarpettiano, più volte evocata dal giovane e lungimirante Eduardo. Vanno segnalati Mario Autore, un credibile Eduardo con il giusto equilibrio tra l’affetto fraterno e l’ambizione personale, ricordando a tutti che il pregio di una interpretazione è quella che sottrae, invece che aggiungere, quella del silenzio anche quando si parla, come ci ha insegnato, per l’appunto, il grande attore e drammaturgo; Anna Ferraioli Ravel, una Titina commossa ed espressiva che sa fare da trait d’union tra l’inquieto Eduardo e il più accomodante Peppino, interpretato con sapienza da Domenico Pinelli, che sa mostrare la sottile invidia per il genio del fratello, per lui escluso dal consesso familiare allargato degli Scarpetta. I fratelli De Filippo è dunque la storia di una difficile ascesa, della fragilità dei rapporti familiari, di una genialità mal compresa, di una lenta e faticosa rivalsa. Rubini ci offre il profilo di Eduardo come quello di un artista di talento nella piena consapevolezza dei suoi mezzi e quello di Peppino come attore di qualità, ma senza le punte di diamante del fratello. Il film scorre sul racconto di questo sotterraneo disamore, su questa stima inespressa di Peppino e su un amore fraterno messo da parte davanti all’urgenza di raccontare con la propria arte la gente di Napoli, facendone forma universale di narrazione popolare.

 

 

Eduardo voleva entrare dalla porta principale nell’ideale teatro e voleva essere ammesso a prendere l’ascensore per quella celebrità che sentiva vicina, quello stesso ascensore che quando era ancora giovane era disponibile solo per la famiglia Scarpetta, ma già all’epoca Peppino si accontentava di fare le scale. In questo 2021 così dopo il controverso Natale in casa Cupiello di Edoardo De Angelis e il citato Qui rido io di Mario Martone, questo film sembra chiudere un ciclo e sancire con una sua grazia, un tema ricorrente per il regista pugliese, quello dei legami fraterni, delle asperità dei rapporti familiari, qui tutti condensati in una cornice che senza eccessi sa mettere in scena un racconto di grande respiro, che tale rimane anche quando lo sguardo si rivolge all’intimità dei rapporti. Quella intimità così chiusa per Eduardo, che seppe però riversare nei suoi personaggi e nelle sue storie, nelle quali si respira l’aria dei vicoli di quella Napoli così scenografica e spontaneamente teatrale.