Per chi non lo sapesse, Christian Rivers è uno dei massimi collaboratori di Peter Jackson. È suo il lavoro quale storyboarder, regista di seconda unità o digital artist per molti dei titoli dell’autore neozelandese che qui invece veste “solamente” i panni di produttore e sceneggiatore. Non deve quindi sorprenderci che Macchine mortali covi fortemente al suo interno il marchio di fabbrica del papà cinematografico della Terra di Mezzo: set spropositati, gusto per lo spettacolo, vuoti narrativi appositamente previsti per fare di questo film il primo tassello di una nuova saga cinematografica (non dimentichiamoci che la base narrativa dal quale è tratto il lavoro è composta, ad oggi, da sette romanzi). Per usare un gioco di parole, potremmo perciò parlare di Macchine mortali come una macchina con tutti gli ingranaggi al posto giusto, forte di un potenziale pronto a esplodere, soprattutto in anni in cui il pubblico sembra aver trovato gusto per le grandi saghe (pensiamo al revival degli anni Ottanta, al successo delle serie televisive oppure semplicemente all’aggiornamento e rilancio di grandi marchi quali ad esempio quello di Star Wars o i diversi supereroi Marvel). Se poi ci aggiungiamo un pizzico di contestualizzazione politica (il film dialoga con il presente individualista e nazionalista catapultando lo spettatore in un mondo post apocalittico in cui le città sono dei giganteschi carri armati fantascientifici che vagano sulla Terra cercando di cacciare, ovvero inglobare, i paesi più piccoli dai quali assorbire cibo ed energie per la sopravvivenza), allora il piatto è decisamente ben servito.
Ciò che quindi lascia perplessi alla fine della proiezione è come sia possibile rimanere impassibili e distanti dalla storia raccontata. Rivers si fa infatti portavoce di un film freddo, calcolato, prevedibile e quasi mai davvero appassionante: Macchine mortali è un automa con il quale risulta davvero complesso instaurare un rapporto empatico. I molteplici risvolti narrativi, invece che accrescere il climax emotivo, rischiano di disorientare e allontanare il pubblico dal cuore del racconto; le sottotrame sanno di già visto e i colpi di scena mirati a legare i personaggi reciprocamente destano più ilarità che dramma. Non bisogna fare di un’erba un fascio, eppure Macchine mortali è una spia interessante ed evidente dell’allarme che il cinema contemporaneo sta facendo risuonare da alcuni anni a questa parte. Continuare a insistere sull’usato garantito, riciclare, riaggiornare, cercare di proporre le medesime formule mascherandole da novità imperdibili non funziona sempre. Il pubblico non è così stolto come vogliono farci credere e se il cinema da sempre è stato bollato come il linguaggio del futuro, tornare a guardarsi costantemente alle spalle potrebbe essere controproducente. Sarebbe l’ora di privarci del pilota automatico per iniziare a farci guidare dal coraggio di esplorare nuove strade.