Come affluenti che portano lo loro acqua al fiume da cui si abbeverò l’hard rock. Il fiume sono i Led Zeppelin, una band che ha condotto il rock ad altezze vertiginose; gli affluenti che lo alimentano sono i singoli membri del gruppo. È così che il regista Bernard MacMahon ha deciso di raccontare la maniera in cui i Led Zeppelin divennero tali, in Becoming Led Zeppelin: una ricostruzione in apparenza semplice, che segue la scansione cronologica, attraverso quattro storie che convergono infine in una sola. In realtà, se il film assomiglia poco agli altri prodotti di un filone in costante ascesa quantitativa, la cosa è dovuta alla sontuosa componente musicale, che domina (per durata e qualità) sul parlato. Il quale, altra particolarità parecchio singolare, è basato esclusivamente sulle testimonianze contestuali dei tre superstiti – il chitarrista Jimmy Page, il cantante Robert Plant, il bassista John Paul Jones – oltre che sui ricordi del leggendario batterista John Bonham, morto nel 1980, che rivive attraverso gli audio estratti da una rarissima intervista.
A prescindere dalla prospettiva, l’operazione si presentava comunque ostica, in quanto l’ascesa alla celebrità dei Led Zeppelin fu rapidissima, se non addirittura fulminea, e quasi non documentata: anche per tale ragione era sempre rimasta nelle intenzioni di molti, senza essere mai realizzata in precedenza. Non solo per questo, in verità, ma anche per espressa volontà della band, come ha confessato Jimmy Page alla presentazione veneziana del film: “Abbiamo rifiutato un mucchio di proposte piuttosto miserabili, per anni, in attesa che arrivasse quella giusta”. La proposta giusta si è infine materializzata con McMahon: “La sua idea ci ha conquistato – entra in dettaglio Page – perché è l’unica che mette al centro la nostra musica, con la missione di approfondire da dove venivamo e come siamo nati, la nostra formazione, cosa ha significato essere insieme e suonare. Non c’è altro, in fondo, ma per noi è tutto: l’amore per la musica è il motivo della nostra esistenza”. MacMahon, in virtù di un accesso privilegiato all’archivio della band, ha potuto disporre di materiale in larga parte inedito, e ha contribuito in proprio a renderlo utilizzabile, restaurando manualmente oltre 70mila fotogrammi ricavati da pellicole e negativi originali. Lo ha quindi assemblato in modo fantastico, ottenendo un risultato che a tratti ha la potenza di un live. In principio si delineano, intrecciandosi, i percorsi di quattro ragazzi provenienti da diversi luoghi del Paese, che fanno il loro apprendistato musicale nell’Inghilterra (Londra e Birmingham) degli anni ‘60. Ciascuno per proprio conto: chi (Page, Plant, Bonham) muovendosi da autodidatta e facendo lunghe gavette nei club, chi proseguendo una consuetudine familiare con il mondo dello spettacolo (Jones, i cui genitori erano artisti del vaudeville).
Quando si incontrano per provare insieme, nell’estate del 1968, l’idea ancora piuttosto vaga è quella di dare un futuro agli appena sciolti Yardbirds (di cui era parte Jimmy Page), che avevano ancora un contratto in essere per un tour scandinavo. Per questo, il nome provvisorio è The New Yardbirds; che diventa Led Zeppelin quando Page si ricorda di una considerazione attribuita a Keith Moon degli Who e riportatagli dal manager degli Yardbirds stessi, secondo cui una superband con lui, Page e Jeff Beck in line-up avrebbe “volato alto come un le(a)d Zeppelin”, cioè come un dirigibile di piombo. Dopo il positivo viaggio nordico, i quattro ottengono un contratto più che buono con Atlantic Records per pubblicare un disco (grazie all’interessamento del mastodontico quanto arguto produttore Peter Grant), quindi partono per gli Usa con pronte le canzoni che confluiranno nel disco d’esordio e, dopo un avvio altalenante, esplodono. MacMahon ha un’intuizione non da poco, nel costruire l’architettura del suo documentario: mentre passa in rassegna uno per uno i Led Zeppelin, ci fa anche ascoltare la musica che essi stessi ascoltavano, quella che li forma e le cui influenze saranno frullate insieme per generare un mix unico. Rock’n’roll, soprattutto, ma anche lo swing che impazzava prima o il folk, suonando il quale Bonham paga le bollette e mantiene la famiglia; quindi, naturalmente, il blues. Più avanti la musica araba, indiana e la psichedelia di Jefferson Airplane e Doors. Non assistiamo visivamente all’affresco di un’epoca, ma ne sentiamo la colonna sonora, nelle sue differenti espressioni, percependo con chiarezza esemplare l’evoluzione del sound nel tempo. Poi il commento sonoro dal 1969 al 1980 lo fanno loro stessi, i Led Zeppelin, con una progressione verso sonorità inconfondibili, a rifinire uno stile che ancora adesso molti provano a imitare con esiti più o meno aporossimativi (da ultimi i Greta Van Fleet): una traiettoria che già si può legger bene nella trasformazione graduale di un pezzo come Dazed and Confused, che nasceva folk (da Jack Holmes) senza percussioni, ed era stato riarrangiato una prima volta in chiave rock-blues da Page per gli Yardbirds, che successivamente lo rende l’irresistibile trip di acid rock che conosciamo; l’approdo è invece evidente nella cavalcata hard-rock di Whole Lotta Love, introdotta da uno dei più noti riff di chitarra di sempre. Curioso che Page, come scopriamo dal film, non volesse sentir parlare di “singoli” e guardasse agli album nel loro complesso, perché considerava i primi una forma di disimpegno e guadagno facile che zavorrava troppi colleghi del tempo, compreso quel Terry Reid a cui aveva chiesto invano di essere la voce della band, prima di “ripiegare” su Plant. Ad ogni modo, con il gruppo che ha raggiunto il successo, a MacMahon non resta che mostrarceli in azione, per farci sperimentare l’alchimia che scorreva all’interno di “un gruppo che improvvisava tutto” e che decise di sciogliersi senza tentennamenti e senza ripensamenti con la morte improvvisa di Bonham. La ragione la argomenta ancora una volta Page:”Perché non potevamo più essere gli stessi di prima”. Un pieno di adrenalina che dura a lungo, in crescendo, entusiasmante.