Perdersi, trovare, ritrovarsi: Casablanca Beats è una sorta di mappa che traccia percorsi tra i luoghi, le parole e le persone che si esprimono in una realtà dall’anima divisa in due, tra la voglia e la paura di cambiare. Siamo a Sidi Moumen, nordest di Casablanca, quartiere sovrappopolato non lontano dai grattacieli del centro, concentrato di un’umanità sospesa tra la baraccopoli, i mercati, la moschea, i vicoli, svariate attività e molteplici attese… Linee di fuga quotidiane, che per alcuni dei più giovani conducono al Centro Culturale fondato nel 2006 per offrire prospettive differenti a quelle degli attacchi terroristici, che tra il 2003 e il 2007 avevano trovato proprio in questo quartiere gli artefici degli attentati che hanno segnato il Marocco. Nabil Ayouch ci introduce in questo universo nel segno di uno smarrimento: Anas, il protagonista, giovane uomo già battuto dalla vita, si spinge da estraneo nel cuore di Sidi Moumen, come fosse un eroe di John Ford, dice il regista, senza un presente ma con vissuti sufficienti a scalfire la sua solidità…Un passato da rapper di successo negato per fare spazio a una nuova identità, un presente senza radici offerto ai ragazzi del centro culturale nel segno della parola che libera al ritmo del pensiero immediato, sincero, urgente. I responsabili della struttura lo guardano con qualche sospetto, ma Anas scardina da dentro il mito del rapper giocoliere delle facili parole di rivolta alla moda, spinge i ragazzi a mettere da parte le pose, le frasi fatte del rigetto sociale, per lavorare piuttosto sui loro dolori, sulle verità che bruciano dentro e cercano una via d’uscita.
Il raffronto tra la posa hip hop e l’urgenza del ritmare il proprio verbo più intimo è il cardine su cui si gioca la lezione che Anas impartisce ai ragazzi, e il film se ne fa carico, salvo poi cedere alla gioia della messa in scena musical, agli schemi di una modulazione alla Fame, tra difficoltà delle vite private, sogno di affermazione (prima ancora che di successo), urgenza di narrarsi al mondo attraverso la musica, i gesti, le parole. La scuola come palestra e spazio d’espressione progressivamente prende spazio nella rappresentazione colorata, nelle esplosioni musical che si impossessano del film come un atto di rivolta allo schema offerto dallo scenario sociale: le case affollate di figli e fratelli e padri padroni, le famiglie che protestano perché le figlie ballano in pubblico, l’imam che intona al microfono le sue preghiere e interferisce con la laica litania del rap espresso in classe dai ragazzi…Casablanca Beats sta proprio in questo sincronico contrasto tra fasce parallele del vivere a Sidi Moumen, convergenza di opposti modi di sentire che vanno in controbattuta, mentre l’urgenza del dire sgorga in forme d’arte all’impronta, alle quali il film dà forma piena, dignità da musical effettivo, quasi a realizzare nello spazio filmico della finzione il sogno contrastato dei ragazzi di organizzare un concerto.
Nabil Ayouch passa attraverso la formula della realtà in cui si cala per raggiungere la realizzazione del sogno grazie al suo film: Anas Basbousi, bel volto intenso, vero rapper dismesso per scelta personale, finito nel Contro Culturale per insegnare ai ragazzi del quartiere la sua arte, è lo specchio di se stesso, racconta la propria storia per come si è sviluppata sotto gli occhi del regista, che l’ha osservato per un anno prima di decidere di farne il protagonista del suo film. Il ritmo che batte in Casablanca Beats non è quello del realismo, ma quello della fantasia: questo non è un documentario, non è cinema del reale, ma cinema della realtà che smargina nella fantasia, che si scontorna nella gioia dei ragazzi che prendono la parola, impossibile da contenere. Certo il rischio è la retorica sociale, ma l’antidoto è come sempre la poesia che non trattiene la parola e la lascia dire. Esattamente quello che è il rap vero: l’ultima forma di poesia possibile…