JLG (1930-2022) – Passion di Jean-Luc Godard e la scoperta del cinema

Riscoprire il cinema, la sua ricchezza infinita di segni, sensi, gesti, parole… In Passion Godard vince la scommessa di ri-pensare il linguaggio (che nel cinema si va a specchiare), e lo fa analizzando questo stesso linguaggio, scomponendolo nei suoi elementi, riscrivendolo in una forma che svicola da se stessa e si inventa nella mutevolezza delle innumerevoli dissociazioni/associazioni. Come a voler rimettere in gioco tutte le carte, rinominarle e “rivalutarle” per far emergere da esse i significati che ancora non sono state in grado di esprimere. A partire da questo film, infatti, certe cose cambiano in favore di un percorso di rinnovata semplicità, anzi, di vivace chiarezza, che finisce poi col riflettersi in una luminosità tutta nuova, capace di ritrarre il mondo nella nuda spontaneità del suo essere (si pensi a Nouvelle vague, alla brillantezza dell’acqua e delle fronde, e ancora al riverbero ostinato dei colori in Eloge de l’amour). Se per Godard il cinema (come la letteratura, la pittura, la musica) è la lente per ri-leggere le fasi della storia, per noi il suo cinema deve essere un testo da scoprire, ogni volta differente, contaminato e condizionato dai modi del nostro sguardo. In questo senso il mistero di ogni singolo film sembra sciogliersi, la trama fittissima degli strati che lo compongono si dirada per lasciare emergere un’immagine pura, la sola scelta possibile in un solo momento possibile. E non è un caso se proprio in Passion l’idea dell’irripetibilità del tempo sia accentuata dalla ricerca ossessiva della luce giusta, la sola in grado di far vivere di passione un film (quello che si sta facendo) che altrimenti si perderebbe negli intricati cunicoli di ombra e di buio, nell’immobilità di un quadro e nella ripetizione sempre uguale delle distanze.

 

 

La scoperta del cinema, allora, passa attraverso la creazione del movimento. Surplus di “respiro” donato ai quadri di Delacroix o Rembrandt, che Godard indaga, ricerca, studia per scoprire l’origine del cinema e il valore della luce che, dentro di sé, è già cinema. Basta filmarla. Accenderla, spegnerla, modularla come un canto continuo, e lei farà tutto da sola. Cambierà le prospettive, trasformerà gli spazi e le distanze, rideterminerà i contorni delle cose, svelerà la presenza e l’assenza, un corpo o uno sguardo. “Io osservo, trasformo, trasferisco” dice il regista Jerzy che, per continuare la sua inarrestabile ricerca, non può che aspettare l’istante nel quale, finalmente, la luce si lascerà filmare. E così si siede quasi al buio, al centro di un set oscurato e inerte (“non ci sono ombre reali ma solo proiezioni” ha fatto notare durante una ripresa), a parlare di fronte ad una piccola fessura, a riflettere sulla necessità di un cinema senza regole e senza storie. “Nella luce brilla l’eco di ciò che la notte sommerge e prolunga nell’invisibile”. Nel frattempo sono le parole a disegnare le diegesi del film, a renderci evidenti i sovrapposti livelli del mostrare (si può dire “raccontare” per un film di Godard?) colti in tutta la loro complessità creativa. Vince il fuori sincrono, l’afasia tra suono e immagine che ne dilata il senso anche oltre la loro persistenza sullo schermo.

 

 

La musica di Mozart, Beethoven, Dvorák, esce dai margini e contamina, con la sua a-temporalità, il lavoro di una fabbrica, ma subito dopo la secca quotidianità di un dialogo si sovrappone ai tableaux vivants e li sottrae alla loro estatica finzione. Non c’è mai solo un’inquadratura nelle inquadrature che Godard costruisce, in esse sono contenuti mille vettori che rimandano ad un fuori campo che è lo spazio, reale e soprattutto teorico, oltre i quattro lati dello schermo, come fosse un invito ad avvicinarsi alle immagini per svelare la loro estensione oltre il vedibile. Allo stesso modo il cinema irrompe nei luoghi estranei al set (di un film che si chiama Passion) per osservare la gestualità ripetitiva e assorbirne l’energia. “I gesti sono più importanti delle parole”, ma le parole traducono il lavoro in passione. Le travail et l’amour. Ecco spiegato il significato di un sottotitolo che si è perduto nella versione italiana e che da solo basterebbe a riassumere il senso dell’opera di Godard. Il lavoro e l’amore “il lavoro è come il piacere, ha gli stessi gesti dell’amore, non necessariamente la stessa velocità”.