Rivista in prospettiva, la carriera di William Friedkin risalta non solo per il valore assoluto delle singole opere, ma anche e soprattutto per l’eclettismo dei linguaggi e dei formati di volta in volta impiegati. Assente dal grande schermo dal 2011 dello splendido Killer Joe, il regista di Chicago ha continuato fino all’ultimo a dirigere episodi di serie televisive, documentari e prodotti direct-to-stream, come quest’ultimo The Caine Mutiny Court-Martial, uscito postumo e destinato a Paramount+ ma presentato in anteprima fuori concorso alla Mostra di Venezia 2023. Un titolo che è una summa del percorso cross-mediale friedkiniano, essendo tratto dall’omonimo dramma in due atti per il teatro scritto da Herman Wouk, che riduce il romanzo premio Pulitzer L’ammutinamento del Caine dello stesso autore. Particolare più interessante è che, fra entrambe le versioni, la storia conta già varie trasposizioni, tanto per il cinema – celebre quella del 1954 di Edward Dmytryk – che per la tv, ivi inclusa la nostra Rai nel 1961. All’interno di questa vertigine narrativa, Friedkin entra da protagonista, con un adattamento fedele alla fonte, ma pregno di tutti i temi a lui cari sull’ambiguità del reale, che non a caso crea facili collegamenti con altri suoi precedenti lavori, dal remake de La parola ai giurati e Assassino senza colpa per l’uso della struttura processuale, a Regole d’onore per l’indagine all’interno dei ranghi militari.
Nel caso specifico, infatti, il banco degli imputati è per Steve Maryk, comandante in seconda del vascello sminatore USS Caine, sotto accusa per ammutinamento, dopo l’inusitata iniziativa con cui ha deposto Philip Francis Queeg, capitano della nave, durante una crisi provocata da una violenta tempesta. Il processo segue le regole incalzanti del legal thriller all’americana, e si intreccia al vissuto personale che collega l’imputato al suo avvocato Barney Greenwald, scettico sull’innocenza dell’amico, ma disposto a tutto pur di vincere la causa. Come sempre in Friedkin, la ricerca della verità che il sistema persegue con assoluta fiducia, forte del suo sistema di regole predefinite, diventa il viatico per la presa di coscienza dell’arbitrarietà del bene e del male. Lo sguardo del regista è abile a mantenere in equilibrio il punto di vista fra i tre piani del racconto: dapprima quello “soggettivo” dei personaggi in lotta contro gli interrogatori incalzanti dei due avvocati, in cui ognuno cerca di far prevalere il proprio punto di vista, ora per orgoglio, ora per senso di rivalsa o rancori sedimentati nel profondo, ora per desiderio di mera competizione, figlio di una società abituata a pensare in termini di vittoria o sconfitta, al di là della reale sostanza dei fatti.
Segue il piano “oggettivo”, dove emerge la sostanza dei fatti su quanto accaduto alla nave: va ricordato infatti come il testo teatrale espunga solo la parte finale del racconto, lasciando allo spettatore il dovere di rimettere insieme i pezzi progressivamente, mentre le varie testimonianze si affastellano. Infine il piano trasversale che, al di là delle ragioni delle parti, lascia emergere il reale precipitato della vicenda e le abili manovre sottese all’intero processo, delegate alla folgorante scena finale. Coadiuvato da un ritmo perfetto, il lavoro di Friedkin trova felice sponda in duelli attoriali di prim’ordine, in cui, accanto al compianto Lance Reddick, spicca un Kiefer Sutherland impegnato in un incredibile tour-de-force recitativo sul finale del processo, quando l’ex agente Bauer di 24 disvela progressivamente la complessa natura del suo personaggio, passando dalla tracotanza iniziale a una fragilità cui tanto il testo quanto lo sguardo dell’autore non possono che concedere infine l’onore delle armi. Una scelta che denota la grande forza morale del cinema di un autore che non potrà che continuare a mancarci moltissimo.