La parola “palisiada” significherebbe lapalissiano. L’aggettivo sta a definire, nel nostro caso, forse una continuità visto che il film dell’esordiente regista ucraino si svolge con due eventi che danno vita alla storia, a venticinque anni di distanza l’uno dall’altro. La ricostruzione di un omicidio da parte di uno psichiatra forense e di un ispettore di polizia, entrambi innamorati, anni prima, della vedova della vittima, indagano sull’omicidio del loro collega. Ricostruiscono i fatti nell’imminenza dell’abolizione della pena di morte in Ucraina. Da qui la diversa accezione di “palisiada” come una ridondanza del parlare. E in effetti nel film si parla molto, le voci si sovrappongono, i personaggi sembra vogliano sopraffarsi reciprocamente. Vincitore nel Concorso dei lungometraggi, indubbiamente possiede delle carte a proprio favore. Il regista ucraino realizza un film duro e a tratti perfino insopportabile segnato da un’estetica ricercata, quasi antica, da film d’epoca girato in pellicola. L’autore recupera, inserendoli nel suo film, immagini conservate in VHS a sottolineare la continuità dell’indagine sulla propria storia passata nel cruciale passaggio verso un differente assetto politico-economico. La palisiada diviene così un film su un Paese che sembra denunciare una sua immobilità, pieno di misteri irrisolti, un tema che sembra essere adatto ad un lavoro documentaristico più che di fiction e il regista ha avuto modo di spiegare la sua posizione: «…non avevo intenzione di girare un documentario o di narrare e rappresentare la verità effettiva di quei giorni. In fondo, il film non pretende di essere una rappresentazione della realtà. È invece una sorta di una stilizzazione di quel periodo, dello spirito dell’epoca e della vita quotidiana delle persone».
La palisiada è un film duro, inospitale per l’occhio dello spettatore sia nella forma e sia nel contenuto, indubbiamente ha ragione la giuria nell’averlo premiato per la padronanza dei mezzi che possiede, ma alcune perplessità è forse legittimo sollevarle. Il film a volte sembra parlare un linguaggio incomprensibile e a volte sembra compiaciuto in quella ricerca di autarchica espressività forse dovuta, come si legge nelle interviste rilasciate dal regista, ad un progressivo rimaneggiamento del racconto che in origine avrebbe dovuto essere più lineare. Comunque resta un film che ci consegna una sorta di condizione esistenziale immutata di quei luoghi, oggi segnati da una guerra sfinente. Nonostante la negazione di Sotnychenko rispetto al fatto che questo film abbia legami con il presente, quanto piuttosto con un suo passato personale che riguarda anche l’attività del padre che lavorava nel mondo del cinema, non si può non pensare che la storia e il filo che lega nel tempo le vicende abbiano un legame con il presente. In termini di rapporto tra spettatori e opera questo si rinviene in quella difficoltà interpretativa delle cose di cui si diceva, in quel linguaggio quasi oscuro che assomiglia all’uso di metafore che il film utilizza come sua struttura. La palisiada è forse anche un messaggio nella bottiglia al suo stesso Paese, dove chi di dovere più chiaramente comprenderà il contenuto. Ma proprio per questo il film vincitore di questo Torino 41, vigilia di un’altra epoca del festival, qualche perplessità la lascia, diventando il premio anteprima dell’annunciata rivoluzione.