Su Netflix SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano, puzzle affascinante e spaventoso del corpo (e dell’anima) di un patriarca

Da qualche giorno sembra che non si parli d’altro. Sui giornali, in televisione, sui social, sui siti di cinema e non solo. Era da tempo che un film (o una serie tv o un qualunque altro prodotto audiovisivo) non suscitava un interesse così trasversale, estraneo al cicaleccio troppo spesso autoreferenziale degli addetti ai lavori, aperto a discussioni (e spesso a polemiche) che mettono a confronto chi quegli anni li ha vissuti e chi non ne sa quasi niente. SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano, la docuserie in onda su Netflix – ideata e prodotta da Gianluca Neri (autore anche della sceneggiatura con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli) con Nicola Allieta, Christine Reinhold e Andrea Romeo, diretta da Cosima Spender e montata da Valerio Bonelli, Manuela Lupini, Tommaso Gallone e Francesca Sofia Allegra, ché a volte i nomi è giusto e rispettoso farli! – ha evidentemente acceso una luce capace di andare oltre la semplice testimonianza, la ricostruzione d’epoca, i morbosi segreti legati alla Comunità di recupero per tossicodipendenti più celebre e discussa d’Italia. C’è qualcosa in più che riesce a stimolare – in quest’oggi che, sotto una coltre di assordante silenzio, vede i numeri del consumo di eroina risalire vertiginosamente – il racconto di quell’ieri, qualcosa che smuove, che riattiva sensazioni rimosse, inconsce, sopite. San Patrignano nasce nel 1978 in un paesino in provincia di Rimini, Coriano, e da lì parte il racconto di SanPa. Nessuna o quasi nessuna contestualizzazione: il racconto prende forma in medias res. Già da anni però il dibattito pubblico sull’eroina impazzava in Italia. Il 22 dicembre del 1975 era stata varata una nuova legge sugli stupefacenti (che inaspriva le pene per lo spaccio e depenalizzava il consumo) che aveva chiuso emblematicamente l’anno di svolta, quello in cui la dipendenza da eroina aveva assunto un carattere di massa. Lo Stato per la prima volta aveva preso posizione, ma come? I Centri territoriali erano diventati, da subito, dei semplici strumenti di distribuzione del metadone, il dibattito sulla gestione del drogato si era mescolato alle discussioni su una riforma più ampia sulla cura del disagio psichico. Le responsabilità pubbliche si rimpallavano e rimbalzavano sulla pelle di un’intera generazione. Chi volesse avere un quadro più dettagliato di questo momento decisivo e contraddittorio della politica verso le tossicodipendenze (e delle teorie complottistiche che da più parti tendevano a semplificazioni deresponsabilizzanti più che a reali spiegazioni del boom del consumo di stupefacenti) dovrebbe leggere il saggio di Vanessa Roghi Piccola città. Una storia comune di eroina, che abbina storia privata e pubblica per fornire una impagabile ricognizione su come l’eroina fosse – dopo un lungo percorso – esplosa nelle strade e nei quartieri di città grandi e piccole, tra i militanti di sinistra e i giovani destrorsi, attraversando ambienti e fasce sociali, senza che si riuscisse a trovare una risposta forte delle istituzioni. Tra gli uomini di buona volontà che, a volte in maniera istintiva e improvvisata, provano a fare qualcosa, ci sono i fondatori delle prime comunità terapeutiche, dove file di disperati cercano una via d’uscita – qualsiasi via d’uscita – al proprio inferno. E se San Patrignano non è stata né la prima né l’unica comunità italiana, ben presto divenne la più chiacchierata. A SanPa non si usavano né psicofarmaci né metadone, l’approccio non era medico-sanitario, i tossici erano ragazzi che sbagliavano, che andavano raddrizzati e rimessi sulla retta via, salvati by any means necessary.

 

 

 

Il documentario sceglie la strada di una ricostruzione che segue canoni narrativi ben precisi e riconoscibili: la serie è divisa in cinque puntate, che simbolicamente si appoggiano alle diverse fasi di un’avventura, di un “viaggio dell’eroe” senza però la concessione di una completa redenzione. Nascita, Crescita, Fama, Declino e infine Caduta, una caduta ancor più rovinosa per le vette di popolarità e successo raggiunte in precedenza. Il lavoro sul materiale d’archivio è straordinario e le interviste ai protagonisti di quegli anni è puntuale e ben sostiene lo svolgersi degli eventi. Al centro di tutto, sin dall’inizio – e per tutte le cinque ore di film, nel bene e nel male – occupa la scena il corpaccione minaccioso e imponente del fondatore della comunità, Vincenzo Muccioli, misconosciuto allevatore di animali che in quel piccolo pezzo di terra fonda un’ancora di salvezza per i reietti, una città che presto mostrerà un eccessivo tasso di espansione, un’azienda in divenire in cui iniziano a girare molti, forse troppi soldi. Chi ha meno di cinquant’anni faticherà a immaginare quanto Muccioli fosse una delle personalità pubbliche più divisive del Paese: santone capace di sollevare famiglie disperate dal peso di figli considerati irrecuperabili (e di cui nessuno sapeva o voleva occuparsi) e, al tempo stesso, spericolato interprete di un senso deviato di paternità, epitome di un patriarcato che educava a suon di botte e contenzioni per estirpare, oltre alle cattive abitudini, anche un qualsiasi afflato di libertà. Non è compito di una serie televisiva giudicare, bensì mostrare: SanPa lo fa senza temere eccessivi strattoni, con un coraggio che merita rispetto e ammirazione. Dona la parola agli ospiti della comunità che mescolano ricordi terribili a momenti di luce, delusioni feroci, anche personali, a un senso di gratitudine che non si estingue nel tempo.

 

 

Mi sembra ingeneroso, come è stato fatto dai più fedeli sostenitori, accusare SanPa di un preconcetto verso Muccioli: si raccontano i suoi eccessi, i suoi guai giudiziari, la sua megalomania salvifica, il suo essere – e voler essere – un überpadre pronto a tutto per salvare i suoi ragazzi tranne che mettere in discussione se stesso, ma anche il lavoro straordinario cresciuto dal niente, la veridicità di un affetto verso chi, per la prima volta, accetta un drogato non come un peso ma come una persona da amare. È forse questo, al di là del pudore con cui si trattano e rispettano le interviste di tutti i protagonisti, della scelta di non emettere assoluzioni o condanne confidando nella capacità di discernimento del pubblico, della precisa e capillare volontà di ricostruzione storica (che è reticente, e forse giustamente, solo nel finale, a proposito delle voci su omosessualità e AIDS), che rende SanPa qualcosa di più di una semplice testimonianza del nostro recente passato. Le cinque ore, che volano via grazie a una tensione narrativa che non si affievolisce mai e a un montaggio sintatticamente esemplare, formano un puzzle affascinante e spaventoso del corpo (e dell’anima) di un “capo”, di un uomo contraddittorio e feroce, capace di stritolare in un abbraccio e di far risuonare il suono dei ceffoni in un assordante silenzio tra la mistica e il terrore, di arruolare soldati – in senso neanche troppo lato – e coprire crimini, di essere complice e boia, di salvare o condannare con la forza di uno sguardo, di sedurre politici e accumulare ricchezze, di oscillare tra demonio e santità. Un personaggio inquietante e seduttivo, uomo titanico, padre padrone universale e assoluto, che si credeva Dio e che non ha mai smesso di sentirsi tale.