In Happy End di Michael Haneke un mondo si sfalda in tempo reale

Una grande famiglia borghese, Calais, oggi. Il vecchio patriarca Georges (Jean-Louis Trintignant) osserva immobile e distratto la dissoluzione della propria vita e di quella dei suoi figli: Anne (Isabelle Huppert) gelidamente controlla le intemperanze del figlio e cerca di mandare avanti l’impresa di famiglia; Thomas (Mathieu Kassovitz) gestisce a fatica le relazioni con la bambina del suo primo matrimonio, tornata a vivere con lui dopo il tentato suicidio della madre, con la giovane moglie che gli ha appena regalato un nuovo erede e con l’amante con cui sembra sciogliersi solo in caldissime chat. Haneke seziona con la consueta precisione di sguardo un mondo che si sfalda in tempo reale, come il crollo del cantiere di famiglia che causa la morte di un operaio, ripreso senza sonoro da una telecamera di sorveglianza. Se i personaggi sono dei doppi, sin dall’onomastica, di quelli di Amour – la cui scena chiave viene citata emblematicamente come fosse un ricordo rimosso – l’uso simbolico dell’immagine rimanda piuttosto a Niente da nascondere, un altro teorema sul collasso di un nucleo familiare. Solo che qui non sono ipotetici segreti a mettere in scacco l’unità di un gruppo, quanto piuttosto una sua naturale corruzione, un’implosione sotterranea ma costante che ha un ferreo sapore di morte.

Haneke mette in scena, letteralmente, una costante pulsione al suicidio che riguarda una intera classe sociale che si incammina sulla via dell’estinzione. I ricchi imprenditori di Happy End (in Concorso) sembrano volersi annullare come in un cortocircuito esistenziale, sono una tribù destinata a corrompersi fino a scomparire, mentre la presenza silente delle nuove schiere di derelitti che arrivano dall’Africa (non a caso siamo a Calais, porto di passaggio e centro nevralgico delle truppe di impauriti e insoddisfatti che votano il Front National) ancora si muovono ai margini della società (e delle inquadrature). In questo funerale ambulante i protagonisti si sfiorano senza toccarsi, si mentono per abitudine, rappezzano le crepe delle generazioni più giovani, sospinte da atti di ribellione che assomigliano a sgarbi e rivendicazioni più che a veri momenti di insubordinazione. Haneke, al suo solito, osserva da lontano, mette alla berlina una immoralità esistenziale restando a debita distanza, frontalmente, usando con perizia il fuori campo, lasciando i propri personaggi annaspare e ritrarsi, per poi abbandonarli sempre un attimo prima della reale catastrofe. Il nitore della fotografia di Christian Berger si mescola alle immagini sgranate delle riprese con il cellulare che, con macabra precisone, aprono e chiudono il film. L’immagine è neutra, testimone muta di una rovina: nessuno merita la salvezza e la fine incombente è un fantasma con cui convivere, semplicemente da osservare. Il “lieto fine” del titolo è forse proprio nella morte, una pulsione irrinunciabile, gonfia di un languore autodistruttivo, a cui tendono questi ricchi amorali, falsi e rincitrulliti, afflitti dall’Alzheimer o dalla depressione, dall’incapacità emotiva più o meno manifesta: padri che non sanno essere padri e figli che non sanno essere figli, uomini e donne che non sanno amare. Il balletto sadico di Haneke, però, è fin troppo costruito, coreografato, anaffettivo quanto i suoi personaggi: nelle scene a tavola, palcoscenico perfetto per le collettive ipocrisie, e nei dialoghi utilitaristi e vuoti affiora la percezione del dispositivo di messa in scena, dell’esplicito retrogusto del film a tesi che ci conduce fino all’inquadratura finale, preparata sin dall’inizio in una equazione di glaciale cerebralità. Quello di Haneke, in fondo, è un cinema talmente appagato dalla propria intelligenza da dimenticarsi volutamente di avere un cuore.