È in un classico archetipo narrativo come l’Odissea e come il suo Ulisse che sembra oltrepassare il mito, che forse va ricercata una forma narrativa che punti sul testo per una trasposizione cinematografica limpida, fondata cioè su uno sguardo che sia al contempo specchio fedele della cultura di una comunità e che attualizzi il passato. Ci sarà pure una ragione se Theodor Adorno e Max Horkheimer riconoscono nella figura di Ulisse quella di un uomo moderno assoggettato alle reti dell’industria culturale, se Joyce nel suo romanzo più famoso sovrappone la figura del mitico eroe greco a quello di un uomo medio, in un’epoca di mutamenti sociali dentro un più ampio smarrimento quotidiano, oppure se Alberto Savinio ne fa un Capitano in una famosa pièce teatrale nella quale con una certa dose di ironia la figura del condottiero si tramuta in quella di un anti-eroe svuotata da ogni eroismo, diventando un uomo incapace di sentimenti e decisioni. Senza trascurare il camuffato Ulisse di Nostos di Franco Piavoli. Ci sarà pure una ragione se nel breve volgere di qualche mese ben tre film (Itaca il ritorno di Uberto Pasolini, Cercando Itaca di Sergio Basso e questo) traspongono la narrazione omerica e il suo assoluto protagonista sotto luci differenti. Tutto a conferma della universale e complessiva potenza espressiva che viene riconosciuta all’opera in quell’eterno desiderio di conoscenza che supera ogni incanto diventando un modo di stare al mondo.
Con queste credenziali si presenta dunque l’Ulisse sardo di Marco Antonio Pani nel suo Némos – Andando per mare, Odissea di un pastore di capre inabile al nuoto, ulteriore traduzione odisseica di un eroe desiderato e desiderante che senza confini attraversa terre e mari in una ricerca interminabile del ritorno, tema costante del suo viaggio. C’è nel film del regista sardo, una specie di autarchia culturale dominante – come già in Anime galleggianti di Maria Gimenéz Cavallo – a cominciare dal dialetto/lingua sardo che conferisce ai dialoghi un carattere di forte radicalità centrata sulla forza evocativa della musicalità propria dei canti sardi e del canto narrativo in rima che appartiene a quei suoni perduti o in parte perduti di cui hanno raccontato i fratelli De Serio nel loro Canone effimero. La veicolazione della narrazione dentro i fonemi della lingua dell’isola (così simile all’originale corso di Il mohicano) attribuiscono al ritmo la qualità sonora del film, tracciando quasi uno scenario, un fondale sonoro, che diventa elemento armonico del fantastico racconto. È in questo ambiente, dai caratteri forti, dentro le cornici naturali di indescrivibile bellezza, mai barocca, che il film di Pani ritrova una sua radice nella quale innesta l’onnipresente figura del mito di Ulisse, ripreso in un bianco e nero sfumato nei grigi che abbandona ogni saturazione visiva lasciando che i contrasti della narrazione siano affidati alla altalenante musicalità verbale.
Le vicende narrate sono quelle omeriche e non hanno bisogno di essere raccontate, i personaggi nella loro mimesi hanno tutti le fattezze e le parlate della comunità sarda in una scelta del cast che ha tenuto conto di quella autarchia produttiva che caratterizza Némos. Pani adotta una messa in scena sempre en plein air quasi a sottolineare una definitiva e popolare universalità di un racconto che diventa tradizione di comunità. I racconti del capraio o del pescatore, che nella loro funzione di coro del teatro greco, attualizzano il racconto dell’Ulisse attempato scelto come protagonista, narrando i fatti come appresi direttamente o per narrazione familiare, amplificandone così gli effetti della tradizione orale. Il mito di Ulisse si intesse nelle storie quotidiane (quanto sarebbe piaciuto a Joyce questa fusione tra mito e quotidianità!), fa parte di una circolarità della comunità, diventa patrimonio del pastore e del ragioniere, dell’imprenditore caseario e del docente universitario, della casalinga e del pizzaiolo. Ulisse parla la lingua della gente che ha introiettato la sua storia, i suoi racconti e il racconto di Pani ne radicalizza – a tratti con l’ironia degli ambienti di Cinico TV – gli effetti. Il tempo dell’Odissea si slabbra e fa parte del sogno e del reale nel ritorno metaforico di Ulisse alla sua terra trasformata dalla modernità. Un racconto dunque di tempo perduto, arcaico, eppure vivo e mai dimenticato che corre ancora oggi con la forza evocativa del desiderio di conoscenza e d’amore. Quell’amore ricercato dall’eroe negli occhi delle splendide donne che incontra, da Calipso a Nausicaa, da Circe fino alla sua Penelope infinita tessitrice di un destino ancora incerto. La Sardegna dunque, ancora al centro di un cinema che diventa espressione vitale di una cultura solida e per questo aperta alle contaminazioni, in una rilettura mai rassegnata di quel racconto che traduce l’inquietudine dell’attesa di nuove frontiere. Ancora di più l’Odissea, nel racconto che sa di terra e frutti che ne fa Pani, diventa materia duttile sovrapponibile all’odissea del presente, avvicinando il mito alla nostra contemporaneità in una trasposizione autarchica, isolana e isolata.