Marcello mio di Christophe Honoré: famiglia di attori in festa a Cannes77

Marcello mio è l’ottava collaborazione tra Chiara Mastroianni e Christophe Honoré. Una strada comune fatta di sette film e di uno spettacolo teatrale del 2022, Le ciel de Nantes, visto a Parigi e di cui avevamo scritto qui. Il regista e l’attrice dichiarano a Les Inrocks che Marcello mio non avrebbe visto la luce senza quello spettacolo – in cui il regista la coinvolgeva nella sua infanzia e adolescenza – e nemmeno senza Winter BoyLe Lyceen (2022), in cui Honoré affronta la morte del padre. Qui Honoré e Mastroianni si scambiano i fantasmi: lui le ha proposto una sceneggiatura che la riavvicini al genitore/icona del cinema, uno dei due di cui è figlia. Lei raccoglie la sfida del film, indossa i suoi vestiti e il suo nome, parla in italiano, fuma le sue sigarette, in un cortocircuito affascinante e temerario. Approfittando finalmente, insomma, di quella somiglianza che – le viene ricordato da una vita, un personaggio lo dice nel film – è così sconcertante. Può sembrare una follia, è una liberazione. La premessa è necessaria per poter entrare con i giusti occhi in Marcello mio, al cinema da oggi con Lucky Red, che nasce da un’intimità profonda tra attrice e regista, da una tenerezza che è un principio e una pratica dei loro copioni e set. In direzione opposta alla violenza di milioni di interviste che insistono sulla casualità di un dato genetico. Sorprendente e creativa, Marcello mio è la reazione che aspettavamo a quella riduzione a “figlia di”, anche dopo decine di film in curriculum, di cui uno solo a fianco del padre (Tre vite e una sola morte di Raoul Ruiz, 1996). Un percorso di disvelamento di sé, del proprio metodo attoriale, iniziato con Honoré da Les chansons d’amour. 

 

 

Non c’è traccia di biografismo, documentarismo o celebrazione nostalgica, nel film, se non in una breve parentesi romana in cui in un (ricreato ma verosimile) talk show televisivo RAI Stefania Sandrelli ricorda l’invidiabile “sciallezza” del compagno di set di Divorzio all’italiana. Per scriverlo, Honoré è partito dai ricordi personali di una figlia (il “mio” del titolo, l’affettuoso soprannome “polpetta”, l’uccellino colorato che appare sui titoli di testa), per poter immaginare e sviluppare un’idea romanzesca del padre. Ha trovato dei complici in Catherine Deneuve (da osservare con cura), Melvil Poupaud, Benjamin Biolay, Fabrice Luchini, Nicole Garcia: ognuno di loro nel film interpreta sé stesso ma, allo stesso tempo, un ruolo. Come potrebbe essere altrimenti? Film fatto “in famiglia”, festa tra amici, ex amanti e colleghi, fantasia e quête, caccia agli spiriti, Marcello mio è un omaggio creativo – oltre che evidentemente all’attore di Fontana Liri – alla professione stessa dell’attore, alla impalpabilità del lavoro, dei suoi vuoti abissali e delle sue insicurezze. Luchini ha la funzione di maestro irresistibile e onnisciente che dà consigli e conforto (attenzione alle sue parole), ma ciascuno dei partecipanti al gioco aggiunge un pezzo importante del discorso amoroso.

 

 

Chiara Mastroianni esorcizza con grazia, leggerezza e autoironia un’eredità impegnativa, recitando in tre lingue che danno conto di un’identità plurale, frammentata (anche in inglese, per via di uno sconosciuto, possibile amante). Prendendo dall’armadio di Benjamin (Biolay, ex compagno e complice anche musicale) un abito nero che la trasformerà in Marcello, non solo fa riapparire col suo corpo un attore moderno, d’avanguardia rispetto al tempo d’oro del cinema europeo in cui ha lavorato. Ma cerca sé stessa, si trova, dice di sé, senza dare dettagli, come se si permettesse per la prima volta di esistere. Honoré usa come sempre la musica dove le parole sarebbero banali: il divertissement di A Dean Martin di Fabio Concato (bozzetto di attore maturo che dialoga con una “piccolina”), le parole che non arrivano facilmente appoggiate su una visita privata al Verano, Una storia importante di Eros Ramazzotti fuori programma al concerto parigino di Biolay. Parlare la lingua del padre non è attaccamento morboso, ma uno strumento di riappropriazione, rassicurazione, vicinanza ed emancipazione. L’abito da uomo addosso, come le chiede Biolay, non è (solo) un costume di scena, ma una decisione. “Mi rende felice”, gli risponde Chiara. Finalmente.