L’invenzione della neve, di Vittorio Moroni: Negare l’immagine della felicità

Si nutre di desideri e speranze questo quarto lungometraggio di Vittorio Moroni, da una parte mostrando ambizione per come orchestra un complesso dramma personale e famigliare fondato sulla apparente linearità dell’intreccio, dall’altra ponendo attenzione a sollevare un ricco apparato emotivo di conflitti interiori e contraddizioni che spingono il film verso una dimensione inafferrabile, proprio come la sua protagonista Carmen. È un film che esplora sentimenti e sensi di colpa dalla prospettiva della voragine che generano nell’animo umano facendo convergere questo vuoto con i pezzi frantumati e taglienti di una conversazione con il mondo andata a finire male, deviata dalla frustrazione per la negazione della felicità, nascosta come l’immagine di un affresco coperto dalla vernice. Il film ruota intorno al complesso dello sguardo: cosa vediamo e come vediamo l’altro? Quale immagine dell’altro registriamo sul nostro sguardo?

 


 
Carmen è una donna che sfugge a sé stessa prima che agli altri e di questo ne è consapevole: conduce un’esistenza precaria, sfiduciata e ferita da un passato che le ha lasciato cicatrici invisibili ma profonde e che, di recente, le ha tolto la possibilità di restare con sua figlia Giada da quando la bambina è stata affidata al padre Massimo con il permesso di vederla ogni quindici giorni. La storia di queste vite che sembrava avessero trovato il modo di stare insieme, è sofferta e proviene da lontano: anche Carmen da piccola è stata portata via dalla madre, affidata a una casa famiglia con la sorella Sonia. Lo scenario è oltremodo offuscato dall’intrusione della famiglia di Massimo, dalla presenza di un giudice a suo modo partecipe, da qualcosa che non possiamo capire. E poi c’è quel negozio di animali. Carmen ha una sete di vita anomala, segue traiettorie sghembe, vive fuori fuoco ma è genuina e il suo desiderio materno entra in collisione con una realtà cruda e spietata che spinge per vederla diversa, più a norma, più connotata, più giusta.

 


 
Moroni conduce dentro lo sguardo selvatico e permeabile di Carmen attraverso poche sequenze scandite dalla frenesia e dalla vivacità di corpi che si muovono caoticamente in spazi chiusi, talvolta angusti, comunque sempre asfissianti. Come da lui dichiarato, «ognuna delle sei scene principali di questo film è stata girata senza interruzioni. L’accordo con attori, operatore di ripresa, microfonista, DOP e fonico era questo: qualunque cosa accada durante il take, non ci fermeremo, fino alla fine della sequenza. Non ci sarà nulla che chiameremo errore, semmai variazione. Ogni imprevisto sarà una nuova opportunità. Come nel documentario, come nella vita». Questa impulsività, recuperabile in maniera analoga anche nei precedenti lavori, in particolare Tu devi essere il lupo, Le ferie di Licu, Se chiudo gli occhi non sono più qui, aiuta a comprendere il motivo per il quale il regista e sceneggiatore (anche per Crialese in L’immensità) ha scelto di non compiacere lo spettatore affidandogli un personaggio colmo di sfaccettature: scivoloso ma ruvido, graffiante ma dolce, aspro ma ipnotico, non bilanciato, non simpatico, non amorevole, non convenzionale. Semplicemente umano.

 


 
A questa dimensione drammatica, segnata da una fotografia che amplifica le parti scure del discorso, Moroni accosta una sfera idealmente onirica e surreale, ma anch’essa molto concreta perché interessata a tradurre le aspettative di Carmen, mediante l’animazione poetica di Gianluigi Toccafondo. Una cornice metaforica che, pur con delle concessioni esplicative che a tratti indeboliscono la componente evocativa e misterica del film, rivela con grazia un mondo subacqueo e boschivo, allusivo di un tormento e di quella capacità di trasformazione continua, necessaria per restare al mondo. Credere nel potere dell’immaginazione, credere nella favola che lei e Massimo raccontavano a Giada è l’unico appiglio per Carmen, l’unica speranza di salvezza e di riconciliazione. È la rivincita del suo desiderio di felicità sulla crudeltà del mondo reale. È l’invenzione della neve che cade dal cielo e si posa misteriosamente e silenziosamente sulla terra. Che lascia poche vie di uscita.