Venezia81 – Fantasmi di mafia: Iddu, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Non ha un’identità perché è un fantasma, Iddu, il personaggio-perno del terzo lungometraggio di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza dopo Salvo e Sicilian Ghost Story, presentato in concorso a Venezia81. È il boss Matteo Messina Denaro, capo di Cosa Nostra e uomo dei misteri per antonomasia, latitante per trent’anni e che a un certo punto si ignorava persino se fosse ancora in vita. L’epoca in cui, per l’appunto, non esisteva, non appariva né si manifestava è quella in cui si svolge la storia, attorno al 2000, raccontata attraverso il personaggio di Catello Palumbo, uomo immaginario ma ispirato a Antonio Vaccarino, l’ex sindaco DC di Castelvetrano che con il boss intraprese una corrispondenza per conto dei Servizi segreti, che speravano così di arrivare al suo covo. Forse… già perché il fantasma è una figura retorica che può caratterizzare un po’ tutto lo sfuggente (eppure presente) sistema di rapporti fra differenti apparati della realtà: la Mafia, appunto, la politica, lo Stato e la Massoneria, tutti in gioco nel balletto delle posizioni che ruotano attorno al duetto fra i due primattori, il fantasma e il “Preside” (così è soprannominato Catullo per i suoi passati ruoli nella pubblica istruzione), in cerca di risposte che in realtà sono solo il viatico ad altre domande. Grassadonia e Piazza reinventano i fatti reali attraverso un tono che oscilla fra la gravitas con cui Denaro affronta la sua idea di vita – resa da un Elio Germano di cui si apprezza soprattutto l’eccezionale lavoro sui toni bassi della voce – e la clownerie da patetico guitto di Palumbo – un istrionico Toni Servillo – intelligente ma a suo modo anche sprovveduta pedina del complesso sistema di relazioni che ruotano attorno alla sua corrispondenza e in cui lui vorrebbe primeggiare ottenendo la costruzione di un albergo in un’area protetta.

 

 
I due sono chiaramente facce della stessa medaglia, accomunati da una prospettiva intellettuale che si estrinseca nel linguaggio ricercato di entrambi e nelle citazioni letterarie che la vicenda affastella con complice entusiasmo, retaggio di una cultura arcaica che tenta vanamente di spiegare la problematica caducità dell’essere umano, mentre nei fatti non può che sottolinearne la resa alla propria innata miseria. L’intelletto e la cultura diventano così due fra le tante maschere (o meglio veli da fantasma) che il film utilizza per rappresentare il complesso di verità nascoste e segreti su cui si basa un fragile equilibrio che il passo più lungo della gamba di Catello vorrebbe scardinare. Per questo, mentre cerca di restituire la dimensione d’insieme, Iddu scende poi nella fossa delle relazioni personali e dei legami sedimentati o in via di definizione, che giocano un ruolo attivo nella vicenda. In particolare il rapporto di Denaro con il padre da poco scomparso e a cui è stato sempre devoto, o quello di Palumbo con Rita, l’agente dei Servizi più tenace nella caccia al latitante, con i due che si disprezzano e si cercano apprezzandosi progressivamente. E poi la sorella di Denaro, il figlio che il boss non ha mai riconosciuto, la figlia di Palumbo che ha sposato un inetto che lui non sopporta ma che potrebbe rivelarsi utile al piano… l’intreccio di relazioni ad ampio raggio è riscritto così nella complessità dei legami affettivi che donano ai personaggi una forza drammaturgica e uno spessore umano coinvolgente, lungo quella linea di confine in cui la tragedia si trasforma in farsa e viceversa. I fantasmi in fondo un tempo erano corpi di carne e sangue, elementi che è difficile lasciarsi alle spalle, anche quando si è reclusi nelle stanze segrete degli appartamenti-nascondiglio in cui si cela il pezzo mancante del puzzle.