Anselm di Wim Wenders: ritratto di un’arte del tempo

“Il linguaggio più tenero e gentile e amichevole che sia mai stato inventato nel cinema”. Definisce così il 3D Wim Wenders che, con Anselm torna a sperimentare la forza e la gentilezza dello sguardo tridimensionale della settima arte. Un documentario che è anche colossal per l’ampiezza dello sguardo sulle opere dell’artista Anselm Kiefer, caparbio testimone di una storia di guerra della Germania, che non si vuole/non si può lasciare andare all’oblio del tempo. Wenders incontra Kiefer trent’anni fa, in occasione di una grande mostra dell’artista a Berlino. L’idea di un film nasce subito, ma ci sono voluti tre decenni perché il regista trovasse la forma adatta per filmare queste opere monumentali, che non cessano di fare i conti con il passato. Ne nasce un viaggio in cui se ne ripercorrono le tappe, tra fotografia e opere materiche. Dagli anni Settanta, quando, indossando l’uniforme del padre nazista, scatta una lunga serie di foto nei luoghi d’Europa travolti dalla Seconda guerra mondiale, col braccio destro alzato per assumersi la responsabilità di ciò che tutto il mondo cercava in fretta di dimenticare.

 

 

Fino ad oggi, nel sud della Francia, a Barjac, dove l’artista si è trasferito e dove ha fondato la sua fondazione. Un complesso di enormi dimensioni fatto di edifici, giardini, spazi aperti, perfetti per ospitarne l’intera e tentacolare produzione, fatta di quadri, macerie e sculture, come i libri della memoria realizzati in piombo, sfogliabili nella loro cupezza e accatastati a foderare intere pareti. “L’uomo cerca la leggerezza perché non vuole vedere la pesantezza e l’abisso” dice Kiefer, circondato da statue di donne senza testa, mute e inermi, bellissime e malinconiche, o dagli enormi dipinti fatti di cenere, sabbia, piombo fuso, cemento e zolle d’erba bruciata. Lui che è nato nel 1945 e non ha vissuto la guerra, si circonda di rovine e di quel caos da trasformare in quadri. Fondamentale è il parallelo con Paul Celan e la sua poesia dell’impossibilità conforto rispetto alla Storia.

 

 

Come filmare, dunque, tanta ricchezza di temi, gesti, idee? Come già in Pina, Ritorno alla vita e Les beaux jours d’Aranjuez Wenders ricorre al 3D e inventa una terza dimensione che scardina la normale percezione del tempo, perché il tempo è la prima materia plasmata da Kiefer. Nel 3D di Wenders guadagnare spazio nella prospettiva impone un’organizzazione temporale del tutto diversa, significa mettere lo sguardo nella condizione non solo di soffermarsi sulle cose da vedere, e di sentire, percepire il peso addormentato del tempo che giace nell’opera di un artista tanto radicale. “Nel 3D la differente percezione dello spazio è ovvia – ci spiegò Wenders nel 2016 – mentre la diversa percezione del tempo non lo è alla maggior parte degli spettatori ed è legata al fatto che il 3D fa funzionare parti del cervello che di fronte alla visione in 2D non sono attive. Queste sono le parti del cervello responsabili anche della percezione del tempo”. Un film che si fa gigantesco gioco di specchi, dunque, non una biografia di un artista, ma della sua stessa arte, in cui la cronologia è spezzettata e il presente è sorpreso a riflettersi nei diversi passati, con tutta la vertigine che ne consegue.