Tutti, uscendo dal cinema dopo avere visto un film d’amore, uno di quelli che ci convincono ben inteso, un melodramma con tutti i crismi, magari senza sbavature troppo sentimentalistiche e formalmente eccitante, ci chiediamo per qualche istante cosa succederà, dopo la fine della storia, alla coppia che si è formata in maniera rocambolesca e rapinosa, a volte distruggendo ordini prestabiliti o coppie preesistenti, ree di essere ormai stanche o di essere state solo unioni di comodo. Poi però, usciti all’aria aperta e al grigiore della realtà esterna, la nostra mente lascia cadere quella domanda molesta perché in fondo sappiamo che la felicità del cinema, o meglio la felicità di ogni racconto, è nella perfezione dell’istante, nella sorpresa generata da incastri del caso miracolosi o da imprese così coraggiose che nella vita reale non saremmo in grado di compiere. Insomma nella materializzazione di una di quelle fantasie di onnipotenza che, diceva Freud, mettono al centro del racconto “sua maestà l’Io”, la versione infantile di noi stessi delle fantasie a occhi aperti, della quale abbiamo sempre un po’ bisogno anche una volta cresciuti. (In apertura un’immagine tratta da Pink Wall di Tom Cullen).
L’edizione 37 del Torino Film Festival rompe questo tabù e mette in concorso, uno affianco all’altro, due film che esplorano proprio il terreno scivoloso e disagevole di quel-che-accade-dopo-l’istante-perfetto, cercando di fotografare la risacca della relazione dopo l’alta marea dell’innamoramento, insomma sondando proprio le parti “noiose” dalle quali Hitchcock diceva che il cinema ha il potere di liberarci attraverso la magia del montaggio. Si tratta delle due metà di un dittico solo virtuale, la versione eterosessuale e quella omosessuale della questione, ciascuna con le sue peculiarità, o forse senza troppe peculiarità di genere. Perché Fin de siglo di Lucio Castro (Argentina, 2019, 84’) e Pink Wall di Tom Cullen (UK, 2019, 85’), pur geograficamente ed esteticamente distanti, si interrogano sul destino dell’amore dentro la coppia puntando sullo stesso dispositivo narrativo: la storia di Ocho e Javi a Barcellona e quella di Jenna e Leon a Londra vengono disarticolate, sezionate in fasi, alla ricerca quasi clinica di una diagnosi sul passato delle relazioni e sopratutto di una prognosi sul loro futuro. Prognosi che, come è ovvio aspettarsi, resta aperta, come è aperta la vita, esposta alle bizzarrie del caso e alle bizze degli uomini. E la parte più interessante di quel dispositivo, in entrambi i casi ricordandoci l’ineffabile Se mi lasci ti cancello di Gondry, sta nel fatto che, come strumento diagnostico e forse anche come cura, viene usato il tempo: un tempo frammentato, disordinato, altalenante. Perché, come diceva beffardo Tristram Shandy, a forza di digressioni e dispersioni, forse il tempo, a un certo punto, non ci troverà più e non potrà più farci del male.