La famiglia e i mostri: Lamb, di Valdimar Jóhannsson su MUBI

Al pari della sua ibrida creatura dalla cui nascita si dipana il racconto, così la carriera registica di Valdimar Jóhannsson sembra prendere forma da una fortunata torsione: nato come tecnico che, per circa un ventennio, si è speso tra piccolo e grande schermo ricoprendo varie mansioni (attrezzista, operatore, responsabile di effetti speciali, costumista e via citando), l’esordiente regista islandese ha infatti trovato la sua dimensione piena con questa storia che ha scritto e diretto, incassando pure la produzione esecutiva di un insospettabile Béla Tarr. Quasi un rispecchiamento insomma con la vicenda di una coppia che, nell’inseguire il desiderio genitoriale, accoglie con favore una “figlia” nata metà umano e metà agnello da una delle pecore allevate in isolamento tra le placide valli islandesi. Se l’assunto può far pensare comunque a un racconto per i soli amanti del bizzarro, va invece ascritta alla sapienza dell’autore la capacità di elaborare lo spunto come prolungata riflessione sui temi della ridefinizione dei limiti. Ciò che insomma stupisce non è la nascita della strana creatura, né tanto meno la “normalità” con cui i due coniugi la accolgono e allevano, quanto il continuo ricollocare i ruoli all’interno dello schema generale della storia. Attraverso una serie di triangolazioni, infatti, Jóhannsson fa scivolare i ruoli dal loro baricentro, spostando di volta in volta il punto focale delle relazioni famigliari: Maria, la madre, ha sposato Ingvar, ma è attratta dal di lui fratello Pétur; Ava, la bimba-agnello, è il nuovo centro della famiglia, ma al contempo si rivelerà il surrogato di una vera figlia che la coppia ha perduto in passato.

 

 

E quel mondo sospeso fra valli e montagne, nell’estremo eremo a Nord del mondo, è attraversato da luci e nuvole che descrivono un paesaggio al contempo estremamente naturale, ma pure profondamente alieno, dove possono aggirarsi altre presenze, adombrando la possibilità di un latente conflitto tra specie. Il film lavora in tal modo su forze insinuanti, attraverso uno scontro sempre vivo tra normalità e orrore – nel senso proprio di un ordine andato in pezzi – che genera la costante attesa di un evento che ricollochi i tasselli nel giusto ordine, al pari di queste vite stravolte ma che rivendicano la loro normalità in nome di un destino felice. L’andamento prediletto, fatto di progressivi svelamenti che rimettono in discussione le parti, genera una costante serie di scatole cinesi e pacati colpi di scena che rompono l’apparente monotonia del ritmo, lasciando anche la porta aperta a possibili speculazioni al termine della visione. In questo modo, Lamb si fa racconto di un mondo apparentemente sereno, ma in realtà animato da particolarismi anche spietati, in cui l’amore parentale trascolora senza soluzione di continuità nell’indisponibilità ai compromessi, rovesciando molto agilmente l’ordine tra umani e mostri, il tutto racchiuso nell’occhio gelido di una regia controllata. Aspetto, quest’ultimo, fondamentale per la sua capacità di creare connessioni con le atmosfere tese del thriller scandinavo: la quota svedese è rappresentata in tal senso da Noomi Rapace, altro corpo ibrido per eccellenza del cinema contemporaneo, che rimette in discussione i ruoli fin dai tempi della trilogia Millennium, e che qui è pure produttrice.

 

 

Al contempo, non sfuggono i legami con certe rielaborazioni attuali in cui l’epica si fonde al folklore con un tocco pop: si pensi tanto a Mortal di Andé Øvredal, quanto – ed è forse il paragone che può venire più immediato – a Border, di Ali Abbasi. Il tutto, naturalmente, senza dimenticare il background di un regista-tecnico che nell’esibizione divertita della creatura dal corpo umanoide e la testa ovina annette una nuova meravigliosa creazione al pantheon del fantastico, attraverso un uso evidente ma “nascosto” dell’effetto speciale, anch’esso estremo ma sbandierato con l’apparenza della più pura normalità.