La fabbrica degli stronzi di Kronoteatro: spettri genitoriali e vittime

Grottesco e autoptico (della contemporaneità?), ironico e affilato, La fabbrica degli stronzi è un lavoro sui corpi (morti) e sugli spettri (vivissimi) genitoriali (e i loro prodotti/residui, verrebbe da dire: memoria e responsabilità, vocazione e destinazione; anche se il titolo evoca tutt’altra pièce di quel che resta): elaborazione del lutto in scena di tre fratelli – Lucy, Tom e Fra (nomi che contengono evidentemente anche parti dei propri interpreti: Luciana Maniaci, Tommaso Bianco e Francesco d’Amore) – che si ritrovano su un palco spoglio, di fronte alla spoglia della madre (interpretata con vivace flemma e guizzi mordaci da Maurizio Sguotti, con felice slittamento di genere) a fare i conti (misurazione della bara e della propria esistenza, stima del peso e bilancio del passato) con sé stessi, la propria provenienza e i propri alibi. Sul lettino dell’obitorio il corpse materno è letteralmente e simbolicamente maneggiato, lavato, imbellettato, (ri)mosso, in vista del funerale prossimo, e fuori scena. Insieme, ri-chiamato dai tre figli, è il fantasma del genitore (come un padre di Amleto en travesti e degradato dal tragico al tragicomico), che fa loro visita in questo Kaddish strambo, giocoso e conflittuale, rivelatore anche se (o proprio perché) a tratti divertente, delirante e inconcludente (dinamica in apparenza paradossale per un funerale, che propizia – a contrasto – un finale spietato, “tagliato con l’accetta”).

 

 

Immaginario televisivo di fine millennio, falsi ricordi, rivendicazioni, sapori di mare e Maurizio Costanzo, gelato salato e risa amare, l’icona di Nicoletta Orsomando, vocazioni canore, hashtag motivazionali, anatemi e raccomandazioni (fatti mandare dalla mamma…). I ricordi sono una negoziazione di immagini pop e delle proprie colpe, aspettative parentali e aspirazione a emanciparsi, una rievocazione incespicante di scelte e abbandoni, tradizioni e tradimenti, letti e prediletti, in cui l’identità è spesso costruita attraverso un’abbondante dose di vittimismo (e dunque condannata a un certo esito di carneficina).

 

 

Chi siamo dunque di fronte alla salma e al nucleo affettivo vero e re-inventato di chi ci ha generato? Siamo in grado di seppellire il passato costruendo, senza barare, una bara dignitosa? Può questo feretro incerto contenere/governare la potenza fantasmatica che ci ha messo al mondo e che ci (di)segna? Le tavole della scena di un teatro vivo e capace di sperimentarsi, come quello qui figlio della collaborazione di Kronoteatro e Maniaci d’Amore, sono allora cassa da morto e cassa di risonanza, carcassa da contemplare, rito funebre a cui assistere in pochi, coraggiosi in sala, che del teatro tuttavia non si rassegnano a cerebrare le esequie e ne ascoltano l’interrogazione vibrante.

Per quelli ancora vivi, dentro, al Teatro Fontana (visto il 23 marzo), va in onda dunque questo buffo e vero rito di seppellimento, ancora capace di far nascere dubbi, specchi e illuminazioni in uno spettatore che non voglia recitare sempre la parte della vittima.

 

Foto di Luca Del Pia

 

Milano, Teatro Fontana        23-26 marzo