Le generose sottrazioni di Aucune idée di Christoph Marthaler al LAC Lugano Arte e Cultura

LAC-une. Aucune idée. Non avere idea è forse già una prima idea. O la possibilità originaria di un’idea. Da questo vuoto, dichiarazione ironicamente mendace di mancanza di spunto e senso di smarrimento fin dal titolo, prende le mosse, sulle tavole del palco di Lugano (25-26 gennaio), l’ultima provocazione – si potrebbe dire, giocando con le parole, un po’ site specific e un po’ situation-comedy – del genio svizzero ludico e dispettoso Christoph Marthaler. L’artista gioca infatti in (una) casa, e ci mette a confronto con il vuoto e il nonsense del nostro vivere, ricordadoci che non siamo che (a)spettatori, giocati dalle nostre stesse attese e spaesati in patria. Lo spazio, apparentemente, è quello domestico di un pianerottolo: numerose porte, nessuna vera via di fuga. Da questo esterno/interno non si Esher: un quadro elettrico sovraccarico e un termosifone sifulante, due caselle postali animate e affollatissime, ma senza una vera ris-posta. Le cose disfunzionano. In una dinamica inceppata, la prossimità eterea fa scintille, priva com’è di messa a terra a terra.

 

 

Il linguaggio corrente continua a produrre cortocircuiti, sulla superficie profonda di una mise en abyme vuota e sbilenca (quadretto bianco nel quadro che cede)… Sono queste le de-forme (simboliche?) di una stramba prigionia che sprigiona, generosa e giocosa, continui significanti paradossali. In questo luogo liminare e condominiale dell’anima, fra Kafka, Buñuel e i cartoon (le dodici fatiche di Obelix, qualcosa di Andy Capp), si aggirano (a vuoto?) un violista (il zurighese Martin Zeller) che si mette alla prova con un mangianastri (attratto da esecuzioni wagneriane, non a caso colonna sonora del primo e unico cinema surrealista di Buñuel/Dalì) e un violatore/voleur scansafatiche (l’attore e cantante scozzese Graham F. Valentine, compare marth-alieno di vecchia data) che si aggira, alle prese con vittime altrettanto svogliate e stralunate. Si leggono missive in rime e rimasticano pi-atti mancati, si aprono precipizi sempre più serrati di chiavi e porte sbattute, si accendono tortini di compleanno e piccoli torti di cattivo vicinato, fioccano monologhi scioglilingua, spam pubblicitari e sfiatamenti termosifonici che danno fiato a tarde lallazioni (consapevoli che fra il calorifero e il corifeo la distanza è sottile)… Qui la surrealtà quotidiana incontra la slapstic, il virtuosismo canoro la clownerie, in una parodia/prosodia del vicinato e delle sue trappole (per topoi d’appartamento o criceti nella ruota): le domande sono ritmiche ri-petizioni, le gag puro in-cantamento (talvolta cantato), in cui l’uomo (“piccolo dio della terra”, direbbe Goethe) è animato (telecomandato?) come in un meccanismo (vedi teoria del comico di bersoniana memoria, con echi che da Chaplin arrivano a sfiorare Lino Banfi) sperimentato e sperimentale, nell’epoca della riproducibilità tecnica e della ricorsività tematica.

 

 

 

Se la figlia Eva scrive al padre (eterno), per sempre appare compromessa una supposta edenica pubblica quiete, costantemente disturbata, e Sisifo(ne) si trascina dietro una poltrona nella quale, in-castrato, ri-posa senza pace. Il messaggio non è semplice da leggere (un’impresa solo aprire una cassetta postale, che si rivela più affollata di quella di Harry Potter chiamato a Hogwarts): lettere di adulazione e di denuncia, mille versioni della Bibbia (in uno spettacolo che, senza aspettare Godot e senza scomodare Gutenberg, è tuttavia pieno di ribaltamenti teologici, a partire da una cosmogonia per sottrazione), oppure eccesso pubblicitario che frana, penetrando con apodittica assertività e falsa abbondanza (“N’oubliez pas de réserver votre foie gras pour les fêtes”). Il ritmo di questa surrealtà realistica, riconoscibile e alienante, tuttavia seduce (“what a beauty!” risuona anche nello sguardo spettatoriale in certi momenti) concedendo, grazie all’evidente complicità fra regia e protagonisti, attraverso accostamenti impensati (“nei miei tarocchi il cane divorava la cartomante”), virtuosismi attoriali estenuati, trovate comico/mimiche e sfide grottesche in piena luce, quel che nega senza riserve in termini di limpidezza di trama e di spiegazione servita su un piatto. Se lo si sa fare, c’è davvero bisogno d’altro per fare teatro? Non c’è in questo abile furto/futuro di senso (sottrazione e sovrabbondanza insieme) un dono inatteso? Da provare.