Adèle Haenel in L'Étang, © Estelle Hanania

L’Étang di Gisèle Vienne al FOG Performing Arts Festival

Henrietta Wallberg in L'Étang di Gisèle Vienne, @ Jean Louis FernandezIn scena a FOG Triennale Milano Performing Arts 2022 dal 28 al 30 aprile, L’Étang, il lavoro della regista e coreografa franco-austriaca Gisèle Vienne si ispira molto liberamente a Lo stagno, testo di Robert Walser. Interpretato da Adèle Haenel (La ragazza senza nome, 120 battiti al minuto, Ritratto della giovane in fiamme) e dalla danzatrice Henrietta Wallberg (già in Si c’était de l’amour, di Patrick Chiha, in Panorama Dokumente a Berlino 2020, sullo spettacolo di danza Crowd della stessa Vienne, dedicato alla scena rave anni ’90) L’étang prende a prestito e sviluppa la traccia indicata dallo scrittore svizzero-tedesco in un manoscritto mai pubblicato e dedicato alla sorella: un ragazzino disperatamente in credito di amore materno inscena il proprio suicidio per attirare l’attenzione dei genitori. Tradotto di recente, portato su carta, è completamente riscritto in scena dalle protagoniste, con ampi margini di improvvisazione (“non è quasi più un testo di Robert Walser, ma è quello che Adèle e Henrietta ed io abbiamo voluto dire attraverso il testo”, ha detto la regista, nell’incontro dopo la prima). La scena è una scatola bianca, di un bianco accecante, dove tutto – un letto sfatto, una cassa stereo, qualche libro, caramelle e bottiglie sparse per terra – è in evidenza e niente è nascosto.

 

L'Étang di Gisèle Vienne, © Mathilde Darel

 

Ci sono sette marionette in scena (la formazione di Vienne, che si esprime tra danza e teatro, è avvenuta all’ESNAM, scuola francese per burattinai). Un assistente di scena le porta nelle quinte, una a una, senza fretta. Sembrano ragazzi sopravvissuti a una festa casalinga, degenerata in bivacco. Oppure sono solo fantasmi, forme delle molteplici identità del personaggio che sta per entrare. Quando il palco è sgombro, con lentezza innaturale si inoltra in scena un adolescente vestito con abiti contemporanei. È “il figlio” (Adèle Haenel): berretto da baseball che nasconde capelli corti, catena da rapper al collo, bomber verde, t-shirt, tuta e scarpe da tennis bianche. A seguire, “la madre” Henrietta Wallberg fa la medesima entrata, in slow motion, un passo dopo l’altro, che porta in sé il mondo degli adulti.  Tutto la performance è costruita su questa decelerazione, su una destrutturazione e distorsione dello spazio-tempo attraverso il movimento. Un’alterazione che sprigioni nuovi significati. La regista forza le sue interpreti a posture innaturali, difficili, tragiche. In momenti topici, si sovrappone una musica elettronica percussiva (il sound design è di Adrien Michel) che rende ancora più astratto il movimento delle attrici, trasformate in pure funzioni, aperte a dare voce e corpo a più personaggi, in un continuum magnetico. Quando slow motion e la musica, insieme alle luci cromaticamente acide, si sovrappongono, evocano i film più oscuri, enigmatici e dissonanti di David Lynch, mentre lavorano a smascherare la natura intrinsecamente violenta della famiglia, che sembra proteggere e invece prevarica, sottomette. La sua percezione. Tutto è visibile eppure la violenza – l’incesto, l’abuso, il non ascolto – sfugge agli occhi di chi la sta vivendo. 

 

 

“Ero molto interessata alla struttura della famiglia, e al tema del dominio, di come si articola. È una sorta di copione, quello della famiglia, il primo che dobbiamo recitare”, dice Gisèle Vienne. “Per comprendere le invisibili relazioni di dominio che vengono “naturalizzate” attraverso la famiglia, dovremmo riflettere in modo sempre più approfondito sulle cornici percettive, su quello che vogliamo vedere o meno. Si tratta di qualcosa di estremamente politico. Per questo abbiamo tentato di inventare un linguaggio, in scena, che aiutasse a sentire e a vedere in maniera differente. Sulla dissociazione tra gli elementi della messa in scena, sulla loro contrapposizione non armoniosa, contraddittoria, che permettesse al disorientamento di emergere”. “Il mio personaggio è scisso in molte voci diverse”, continua Adèle Haenel, in una prova sorprendente. “Per trovarlo ho prima tentato di giocare, di sorprendere me stessa con queste voci. Credo che contenga diverse possibilità di essere di uno stesso individuo. I confini tra i vari personaggi si sfumano, le voci tendono a confluire in uno stesso movimento. Così ottengo una modalità di assenza, di non essere qui, perché le varie voci impediscono al personaggio di capire fino in fondo qual è la sua situazione, fanno da L'Étang, @ Estelle Hananiacopertura. Il suo linguaggio non porta alla comprensione ma è una sorta di cecità”. Mentre i novanta minuti di L’étang vanno nella direzione opposta, verso la decodificazione delle dinamiche di potere. Nelle parole del testo “rigenerato” di Walser: “la famiglia non si sceglie ma si può decidere come sbarazzarsene”.