Su RaiPlay Favola di Sebastiano Mauri, un racconto di apprendistato che concilia maschile e femminile

Favola è una favola perché ci immerge nell’atmosfera onirica e voluttuosa del cinema classico hollywoodiano. Onirica per il dispositivo di fuga dalla realtà che quel cinema progettava meticolosamente. Voluttuosa rigorosamente sul piano dello sguardo, alla ricerca di un piacere voyeuristico frutto di una sublimazione del piacere sessuale tanto più intensa quanto più quel piacere veniva rimosso dallo schermo. Al suo primo lungometraggio, Sebastiano Mauri, artista poliedrico (fotografo, scrittore ecc.), sceglie la cifra del racconto che viene da lontano e che guarda lontano, del cinema al cubo, che ha il colore del mélo di Douglas Sirk ri-fatto da Todd Haynes (il riferimento a Lontano dal Paradiso è dichiarato a ogni inquadratura). La tensione metamoderna di Haynes, che usava seriamente il melodramma come lente di ingrandimento sulla società americana contemporanea, qua si riconverte in gioco postmoderno, in cui il piacere della forma, per dirla con Lacan, finisce per diventare il luogo di manifestazione più genuina dell’inconscio, dove è possibile riconvertire il desiderio scopico in desiderio sessuale. Così la vicenda è astratta e claustrata: si svolge tutta in una casa che è la proiezione esatta dell’immaginario della protagonista. Su tutto aleggiano un’ironia queer (‘favola’ nel gergo è l’esclamazione che camuffa dietro una superficie scintillante diversità e discriminazione), un oltranzismo visivo camp (l’artificialità di luoghi e oggetti, l’eccessività di colori e atteggiamenti) e un citazionismo (nel finale troverete Martin Scorsese mixato con Paolo Sorrentino) così disinibiti da smaterializzare ogni tentazione realistica. A questo la fotografia di Renato Berta, il montaggio di Osvaldo Bargero, le scenografie di Dimitri Capuani e i costumi di Fabio Zambernardi contribuiscono preziosamente.

 

 

Così come prezioso è l’apporto di Filippo Timi, che ha sceneggiato il film insieme al regista e compagno, basandosi sulla pièce scritta da lui stesso nel 2011 per le scene del Teatro Franco Parenti di Milano e pubblicata nel 2013: Favola. C’era una volta una bambina, e dico c’era perché ora non c’è più. Ora come allora, Timi è anche interprete, portando a compimento un lavoro sul corpo, sull’identità di genere e sulla maschera attoriale che, rovesciando la prospettiva, forse aspettava fin dall’inizio la magia del cinema. Favola è una favola anche perché racconta la storia di Fairytale, ‘favola’ appunto, una casalinga perfetta che scopre di avere un’imperfezione laddove non se l’aspetterebbe mai. Ma Fairytale non è solo ‘favola’, è anche il ‘racconto di una fata’, ovvero anche il racconto di un omosessuale (si pensi alle Fate ignoranti di Ferzan Ozpetek). Un racconto di apprendistato dove il maschile e il femminile tentano di conciliarsi danzando (anche letteralmente), ri-disegnando la mappa delle loro possibili mediazioni (incarnate, oltre che da Timi, da Lucia Mascino e Luca Santagostino) e le trame dei desideri socialmente ammessi. Una conciliazione possibile solo (di nuovo il fantasma di Lacan) elaborando, esorcizzando, smitizzando, addomesticando, conquistando la figura della Madre: la Mother interpretata da una beffarda Piera Degli Esposti (che si porta dietro il ricordo de L’ora di religione – Il sorriso di mia madre di Marco Bellocchio).