American Honey, un road movie che libera emozioni

2222Una ragazza e due bambini rovistano in un cassone dell’immondizia in cerca di cibo e altri oggetti. Tornano a casa. L’ambiente è confuso e deprimente, un ammasso di oggetti e alle pareti fotografie di anni precedenti che si immagina siano stati migliori. Il giardino è incolto quanto l’interno dell’abitazione. Il padre è violento e abusa di lei, Star, questo il nome della giovane, deve inventarsi un modo per andarsene, senza prima aver lasciato la sorella e il fratello piccolo alla madre raggiunta in un locale di ballo, personaggio altrettanto alla deriva. Le prime scene di American Honey di Andrea Arnold (in concorso al festival di Cannes) potrebbero appartenere a Fish Tank. E American Honey potrebbe essere/è una continuazione di quel gioiello filmico del 2009, secondo lungometraggio della cinquantacinquenne cineasta inglese. Arnold trasferisce infatti i suoi personaggi e i luoghi da loro concretamente abitati nelle periferie scozzesi e inglesi (non solo in Fish Tank, si pensi anche alla sua sorprendente opera prima del 2006 Red Road) negli spazi sterminati di un’America profonda, arcaica. Il prologo di American Honey, che termina con la fuga della diciottenne Star dalla finestra di casa, rappresenta il (primo) pre-testo (oltre che il segno d’unione tra i film della regista) per avviare un vero e proprio road movie, un viaggio per strade, quartieri, abitazioni lontani dalle mappe tradizionali. Star si unisce a un gruppo di venditori porta a porta che percorrono chilometri per vendere riviste che non interessano quasi più a nessuno. Sono giovani, provengono da ogni parte degli Stati Uniti, sono post-hippy di una comunità fondata su rituali tribali (su tutti: le danze attorno al fuoco, elemento ricorrente, esplosione di sessualità e violenza liberatoria) e in perenne eccitazione da springbreak party, sexy e spregiudicati, guidati dalla leader Krystal e dal seduttore Jake (che ha il compito di reclutare nuove ragazze, come Star, magari facendo un numero musical sui banchi di un supermercato per attirare la sua attenzione).

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Attorno a questo (secondo)pre-testo, Andrea Arnold libera la propria furia filmica, energia creativa, sensualità nel filmare tanto i corpi di questi giovani spesso poco più che adolescenti quanto la natura che li circonda (e che costituisce una puntuale punteggiatura – su fiori, insetti, cielo, con i fili dell’elettricità che lo tagliano, filmati anch’essi molte volte – espressa in tutto il film). La libera, la sua furia energia sensualità, con una camera a mano del tutto complice, e non potrebbe che essere così, visto che American Honey nasce da una lunga perlustrazione sul campo compiuta dalla regista, dall’avere vissuto nel corso della sua ricerca con uno di questi gruppi, dormendo con loro nei motel, affascinata da quella sotto-cultura, incontrando Sasha Lane (che interpreta Star e che sembra anche lei essere una della famiglia di Fish Tank) camminando su una spiaggia di Panama City in Florida proprio nel periodo degli spring break, le vacanze di primavera che portano lì migliaia di studenti. Li libera, il suo sguardo e la sua macchina da presa, trasformandoli in occhio e corpo erotico che danza (come) in trance insieme a quel mucchio selvaggio di ragazze e ragazzi- fino, nella scena di sesso fra Star e Jake nell’erba, a farli vacillare, a perdere l’equilibrio, e a non correggerli, lasciando che il fuori campo della partecipazione fluisca nelle immagini e nei gesti che esse accolgono – oppure espandendoli, in un testo che è del tutto magicamente espanso, in una sublime visione, vale a direl’inquadratura con l’orso che si avvicina al viso di Star seduta su una roccia, la saluta e se ne va.

American Honey è un film che non conosce soste, è un road movie, un musical, una storia d’amore, ed è costruito come un loop: strade, motel, abitazioni di personaggi benestanti o sottoproletari, spostamenti su un furgone che è la vera casa del gruppo, uno spazio, ristretto, dove più degli altri, si possono accennare pensieri (la ragazza che ha per eroe filosofico Darth Vader) e liberare emozioni (soprattutto attraverso la musica, le canzoni, fondamentali nel film, cantate dal gruppo o presenti in colonna sonora, o entrambe le cose, come nel caso, in una delle scene finali,di quella che dà il titolo al film, della band country pop di Nashville Lady Antebellum, e che parla di loro; come anche, in precedenza, Dream Baby Dream di Bruce Springsteen ascoltata da Star a bordo di un camion, mentre il camionista dal quale ha avuto un passaggio le chiede che sogni ha, e a lei quella domanda nessuno gliel’aveva mai fatta…).E ancora strade, motel, mezzi di trasporto, polvere, fino al deserto con loro affacciati sul Grand Canyon. I set mutano. Ovunque Star è presente eppure assente, osserva più che partecipare, sul suo volto c’è sempre una traccia di tristezza, un’ombra evidenziata ancor più nella scena in cui tutti, tranne lei, cantano American Honey. Deve ancora andare oltre, Star. Immergersi nell’acqua di un fiume, lei che non sa nuotare (ma che forse ha imparato a farlo durante quel viaggio quando, sostando nella villa di alcuni cowboys, è stata gettata senza preavviso da uno di loro nella piscina ed è risalita con una reazione inconscia). Seguire la tartaruga di mare che le ha appena regalato Jake, sparire sott’acqua e, con gesto quasi horror, riaffiorare, respirare una nuova vita in una notte illuminata dalle lucciole, che illuminano anche tutti i titoli di coda.